sabato 30 gennaio 2010

La memoria del futuro



Incontro in occasione della giornata della memoria
Relatori Prof.ssa Bruna Bianchi, Giulio Rossini, Adriano Gallina
30 gennaio 2010 - Varese

Devo dire che ho fatto molta fatica a concettualizzare l'argomento, perchè si tratta di una di quelle situazioni in cui si deve cercare di razionalizzare e di rendere esplicite le cose che si fanno e si pensano quotidianamente.

Io combatto quotidianamente con il tentativo di costruire un senso, che non sia legato solo all'intrattenimento o all'organizzazione del tempo libero, al mio lavoro. E, ricercando il senso, lo trovo in una solo apparente coincidenza, e cioè nel fatto che il 25 aprile 1946 Paolo Grassi, fondatore del Piccolo Teatro, pubblica sull'"Avanti" un articolo importantissimo, intitolato "Teatro pubblico servizio", in cui pone i fondamenti anche teorici di ciò che il teatro - all'indomani della Liberazione, nella città di Milano medaglia d'oro della Resistenza - avrebbe potuto essere anche come simbolo ed emblema di una ricostruzione, etica, morale e civile.

Non è una coincidenza, non è casuale che Paolo Grassi scelga questa data per la pubblicazione di questo testo: il teatro, nella città, è importante - diceva Grassi - come "i vigili del fuoco", alla stessa stregua. Viene individuato come luogo in cui una comunità può ritrovarsi, discutere. Una comunità intera: l'idea di Grassi è l'idea di un teatro che si possa emancipare dalla tradizione della partecipazione élitaria o alto-borghese. Per un po' di anni ci riuscirono anche: andavano a reclutare gli spettatori, praticando prezzi popolarissimi, nella fabbriche, nei quartieri, praticando il decentramento, un teatro "girovago", nei rioni di Milano. L'idea era che il teatro potesse e dovesse, attraverso le forme della propria arte, parlare a tutti.

Questo il senso del mio lavoro quotidiano. Un teatro che non si può non porre - proprio in quanto servizio pubblico, luogo a funzione pubblica - un obiettivo che è insieme di natura educativa, pedagogica, di ricostruzione anche di fondamenti etici.

E questo, per tornare al tema della memoria, non può che passare attraverso una semplice consapevolezza: la necessità di scollegare l'idea di memoria da un concreto e singolare connotato storico (la memoria della Shoah, la memoria della resistenza). La memoria è in realtà insieme alla speranza, io credo, tutto ciò che abbiamo nel presente. Abbiamo dal non-più qualcosa che arriva e che ci riempie di esperienza, di tradizione, di conoscenze, di capacità di connessione e di interpretare la realtà di un oggi il cui senso risiede nel non-ancora, nella possibilità della progettazione e del cambiamento. In questo senso l'oggi è memoria, è necessariamente recupero della memoria.

E il teatro - quando non parliamo del teatro brillante, del teatro d'intrattenimento (peraltro spesso di qualità, non sto facendo una valutazione di natura estetica): diciamo "il teatro che rientra nella storia del teatro" - è spessissimo, senza alcuna necessità di attualizzazione, teatro di memoria e al contempo teatro che ci parla oggi. Se assistiamo a Le Troiane di Euripide (peraltro collegato, in termini di critica del presente, alla guerra tra Atene e Sparta e al Dialogo dei Meli e degli Ateniesi di Tucidide), assistiamo al contempo al dramma delle guerre imperialiste e alla "ragione del più forte" di oggi. L'Antigone di Sofocle parla di fondamentali temi etici e legati al conflitto tra giustizia naturale e ragion di Stato di oggi. Madre Coraggio di Brecht - che è una requisitoria contro tutte le guerre - è ambientata durante la Guerra dei Trent'Anni. Per parlare di spettacoli meno noti: Kohlhaas di Marco Baliani racconta, dalle pagine di Kleist, un emblematico episodio di ingiustizia sociale nella Germania della metà del Cinquecento, più o meno all'epoca della Guerra dei Contadini. E, per venire alla storia più recente, Il racconto del Vajont di Marco Paolini ci racconta sì un episodio di quarantasette anni fa: ma quanto di quella vicenda affonda e trasferisce le proprie radici nel presente e nella contemporaneità anche etico-politica del nostro paese?

Sempre riprendendo Paolini: quando mi è stato detto il titolo, il tema di questo dibattito - "La memoria del futuro" - mi è venuta in mente la frase di un suo spettacolo, Aprile '74 e 5, che pare un paradosso (e che certo presenta qualche elemento di discutibilità). La frase dice: "solo il presente è obbligatorio. Il passato e il futuro si possono scegliere".

Al di là della possibile interpretazione piattamente modello "Self Made Man" americano ("volere è potere", "il futuro è nelle nostre mani"), quel che voleva dire Paolini in realtà è che nel suo lavoro di attore, che ricostruisce il passato attraverso la memoria (lo spettacolo parla della metà degli anni '70, della strage di Piazza della Loggia), viene svolto un po' il lavoro che compie anche lo storico: se c'è un dato che la storiografia - in particolare la tradizione storicistica - ha acquisito è, da un lato, che non sono necessarie le attualizzazioni perchè, con Croce, "ogni storia è storia contemporanea"; dall'altro che il lavoro dello storico non è un'opera di méra elencazione di fatti, ma avviene una scelta tra i fatti, una sorta di cernita, che dipende in larga misura anche dal dato interpretativo, da ciò che si vuole raccontare, dal fatto che viene ritagliato un segmento nell'universo di discorso. In questo senso, il passato si può scegliere.

E il futuro, a questo punto, si può scegliere perchè può essere inteso come un non-ancora di natura progettuale, legato alla speranza (nel senso blochiano), alla possibilità del cambiamento. Da questo punto di vista, io credo che la salvaguardia della memoria - in sè - non sia tout court un valore con una connotazione politica di una parte: e tuttavia oggi come oggi la salvaguardia della memoria si identifica con la sinistra, perchè la memoria può essere pericolosa, perchè può consentire di reinterpretare il presente e proiettarlo nel futuro in senso potenzialmente destrutturante, rivoluzionario, progressivo. Per questo non è casuale che, da destra, stiano attaccando la geografia, la storia, la scuola pubblica.

Da questo punto di vista, il mio lavoro è un lavoro di sedimentazione, di tradizione, di conservazione della memoria proprio nel senso del tramandare: in una sorta di Fahrenheit 451 a cui non siamo ancora tornati ma che rischiamo di vedere nuovamente attuale. Un lavoro che io interpreto dunque, anche, come costruzione e salvaguardia di una catacomba: nel senso che, se siamo in difesa e dobbiamo prenderne atto, oggi come oggi il teatro - attraverso la sua ritualità, il suo aspetto relazionale, la freschezza dei linguaggi, la possibilità di parlare a tutti e spesso con maggior incisività nel "lasciare segni" nella testa e nel cuore delle persone - è il luogo in cui è ancora possibile proteggere delle aree di resistenza, di cultura, di pensiero, di memoria e quindi il germe dei possibili cambiamenti. Il teatro, oggi, come luogo di maturazione della cultura e del bagaglio etico di una comunità.

Questo è il teatro: per questo qualsiasi teatro che oggi si configuri come teatro di méro divertimento e svago, più o meno ridanciano, non sta assolvendo la sua funzione pubblica né la sua funzione storica.

[...]

Esco per un attimo dalla "difesa corporativa" del mio mestiere. Valutando questo contesto di impiego strumentale del linguaggio, ha però ragione la Prof.ssa Bianchi: vi è un problema di ricostruzione a 360° di alcuni fondamenti. Nel momento in cui il linguaggio, episodi e personaggi storici, simboli, tutto, è - può essere - decostruito, ricostruito, reinterpretato, strumentalizzato proprio perchè la lettura avviene sempre in un'ottica parziale, allora il problema è proprio (e paradossalmente a maggior ragione perchè stiamo perdendo) la necessità di fermarsi e riflettere sui fondamenti.

Probabilmente è questo il punto: ricostruire terreni culturali comuni, ricominciare a dare battaglia proprio anche sul terreno delle parole, del loro senso, dei contenuti.

Un esempio: uno dei due teatri che gestisco si chiama "Teatro del Popolo". Costruito nel 1921 come "Casa del Proletariato" - grazie all'autofinanziamento degli operai dei consigli di fabbrica di tutta l'area del gallaratese - poi ribattezzato "Teatro del Popolo" e chiuso nel 1922 col ferro e col fuoco dai fascisti.

Ora: a me pensare che il Teatro del Popolo - in cui ospito gli spettacoli di cui vi ho parlato - è stato riaperto da un'amministrazione guidata dal Popolo delle Libertà - da un lato mi fa rabbrividire pensando alle tante occasioni perse dalla sinistra, dall'altro mi fa pensare che la decostruzione di due termini tradizionalmente nostri, cioè "popolo" e "libertà", è arrivata al punto che ormai non possiamo quasi più utilizzarli. Possiamo cioè intimamente pensare che questi termini abbiano un connotato semantico univoco: ma se questo senso non lo ricostruiamo anche filosoficamente siamo perdenti. Se i fascisti ci parlano di "solidarietà e democrazia", io quindi non mi meraviglio: siamo peraltro in una regione, ed in particolare in una città, che è riuscita tramite evoluzioni più o meno "etno-antropologiche" a nobilitare e sdoganare i miti della razza propri del nazismo attraverso le celebrazioni delle ascendenze celtiche "delle nostre genti".

Per cui: magari anche ricostruendola attraverso il teatro, è tuttavia necessario non dimenticare l'importanza dello studio e della riflessione filosofica, teorica, ideologica e storica su questi temi. Il rischio, altissimo, è che si continui a parlare tra di noi con codici che riteniamo pacifici e "mono-semantici" ma che in realtà - fuori - vengono interpretati in tutt'altra maniera.

[...]

Volevo dire qualcosa su questo problema della "ritualità" delle ricorrenze, un po' a sua volta "rituale": sono d'accordo sul fatto di non limitarsi alla ricorrenza, ma sono convinto che la ricorrenza vada mantenuta. Va mantenuta e va celebrata: è una sorta di nodo al fazzoletto necessario, perchè altrimenti si perde anche questo. Dopo di che, il fatto di vivere quotidianamente i valori del 25 aprile, del I maggio, della Festa della Donna, del Giorno della Memoria va benissimo. Il problema semmai è di chi si è assunto il compito di celebrare queste giornate e i loro ideali: più o meno creativamente, più o meno nel tentativo di reinterpretare il fenomeno del "ragazzotto con la svastica nel cervello", più o meno rendendosi conto che questo è un problema che non si risolve con il volontarismo delle associazioni ma, per esempio, attraverso il mondo dell'istruzione.

E' illusorio pensare sempre di poter cambiare il mondo attraverso il volontarismo senza rendersi conto del fatto che si tratta di una schifosissima, marxianamente brutale, questione di soldi, di investimenti su voci di spesa che vengono sempre messe a lato: cultura, pubblica istruzione... E' da lì che possono cambiare le cose, non da altro. Nel frattempo si cerca di tenere ferma la testimonianza, tentando sempre di reinterpretarla oltre la ritualità, ma mantenendola.

L'altro livello, però, mi fa venire in mente per esempio il fatto che uno dei temi con cui ho a che fare costantemente, dal momento che lavoro molto con le scuole, è il tema del bullismo, che è diventato l'ennesima "menata" ricorrente e di moda. Ora: non c'è spettacolo, conferenza, agenzia educativa, dirigente scolastico che denunci come non ci si possa fare nulla, perchè in una società bulla il bullismo è inevitabile. Se sono bulli i genitori, il bullismo è inevitabile. Semmai l'unico dato su cui si cerca di incidere è l'omertà più o meno "mafiosa" e complice di tutti quelli che se ne stanno zitti nel momento in cui l'atto di bullismo avviene, spezzare il dato della "maggioranza silenziosa".

Il problema è esattamente questo: nel momento in cui cerchiamo di "cambiare lo stato di cose esistente", teniamo fermi alcuni paletti e intanto ragioniamo, riflettiamo. Anche questo problema del giovanotto "povero Cristo" che ha la svastica nel cervello, ce lo ponevamo già nei primissimi anni '80: allora era Rauti, oggi è Forza Nuova o Casa Pound. E' la stessa domanda di allora: "perchè il sottoproletariato, dal momento che questi sono servi del capitale, è così attratto dalla destra sociale"? Boh. Io non credo che ci siamo dati delle risposte: nel senso che per me la risposta è educativa e, ancora una volta, dal punto di vista educativo il problema sono le risorse che lo Stato investe in questo. Quante più risorse vengono sottratte all'istruzione, tante più coscienze si ottundono, tanto più si perde la capacità di analizzare e reinterpretare il presente, tante più svastiche vanno ad instillarsi, ancora oggi, nella testa dei giovani.