martedì 26 aprile 2011

Piccoli concittadini invisibili

Quando raggiunsero il fianco della montagna un meraviglioso portale vi si aprì, come se si fosse creata improvvisamente una caverna; il Pifferaio entrò e i bambini lo seguirono, e quando alla fine tutti furono all'interno, la porta nella montagna si chiuse velocemente.

E così Hamelin - la città gretta ed ingrata che aveva rifiutato riconoscenza al pifferaio - resta sospesa nell'incubo ad occhi aperti di un futuro svanito. I suoi bambini - ciò che sarà, ciò che sarebbe potuto accadere - se ne sono andati. Per sempre.

E Varese? Dove sono i bambini di Varese?

Scomparsi anch'essi, dall'orizzonte tutto adulto dei nostri programmi elettorali? E, quando fanno la loro comparsa nella residuale considerazione della politica, di quali bambini stiamo parlando?  

Bersagli pubblicitari e mercantili, “nati per comprare” – dal titolo di uno splendido saggio di alcuni anni fa - costruiti e modellati (raramente frequentati o conosciuti) secondo gli stereotipi di un immaginario (e di un utile) tutto adulto, che alterna - a seconda dell’angolo visuale - il mito dell’innocenza a quello delle baby gang, l’enfasi sulle mode alla “terribile semplificazione” del bambino visto esclusivamente come “futuro adulto”? O bambini a cui regalare un po' di bamboleggiante panem et circenses natalizio, preferibilmente con la sponsorizzazione o il patrocinio fortemente visibile di questo o quel Centro Commerciale?

Eppure i Signori Bambini, direbbe Daniel Pennac, sono qui, nostri concittadini invisibili, così come sono ora, con la loro ricchezza e complessità, con la loro sostanziale compiutezza in divenire (non sembri un paradosso) che merita attenzione, considerazione e stima.

Bolle di sapone sensibili ad ogni alito di vento, fragili e rapidissime a spezzarsi al più piccolo turbamento, eppure al contempo dotate di una resistenza e solidità sorprendenti: il segreto della bolla di sapone - come quello dell'infanzia - va rintracciato nella sapiente consistenza e preparazione della sua materia, nella delicatezza (ma anche nella sicurezza) del gesto con cui l'animatore/artista (e, per stare in metafora, il genitore, l'insegnante, il mondo) consegna la sfera, ormai libera, all'aria. Pronta per un volo lieve ma solido, il più duraturo possibile.

Un approccio all'infanzia che muove, soprattutto, da un'idea seria di rispetto: rispetto dei tempi e ritmi della crescita - fisica, emotiva, intellettuale - ma anche della necessità di una sua costruzione, non svilita né avvilita al ribasso. Che riesca a coniugare leggerezza ed allegria con la consistenza del pensiero, lo svago con la cultura e l'educazione: fino a scoprire che queste apparenti antitesi sono, appunto, solo apparenti. Che l'allegria educa e che il pensiero ci alleggerisce l'animo: che solidità e lievità, insieme, sono le chiavi del nostro vivere nel mondo.

Una città che provi a muovare anche da queste premesse - come accade per esempio nel programma elettorale di Marco Astuti e della sua coalizione a Malnate - non può tuttavia che rovesciare, è bene che se ne abbia consapevolezza, il catalogo e l'ordine delle tradizionali, e spesso miopi, priorità politico-amministrative. Perché - al di là della forza evocativa e della nobiltà programmatica dello slogan - probabilmente non è vero che "se va bene per i bambini  va bene per tutti". 

Con le parole di Sandra Zampa (La Repubblica, 4 novembre 2010): 

"In una città dove i bambini e gli adolescenti stanno bene, dove possono vivere sentendosi a casa propria, difficilmente non vivranno altrettanto bene gli adulti. Il loro benessere misura quello di noi 'grandi' ed è a partire dalle loro difficoltà, dal loro disagio e dalle loro sofferenze che potremmo misurare l'inadeguatezza della città che da adulti abbiamo costruito (...) Ogni euro speso per il benessere dei bambini e degli adolescenti è ben speso. Il benessere delle loro vite attraversa ogni pagina dell'agenda degli impegni di un'amministrazione. Dalla qualità dell'aria allo sport, dal tempo libero alla scuola e all'educazione, dai programmi di integrazione al verde, fino alla viabilità".

Occorre coraggio: occorre saper costruire, in tempi di "coperte corte", teoremi radicalmente diversi, costruiti sul primato - anche e soprattutto finanziario - della scuola e della cultura, delle biblioteche e dell'ambiente. Con lo stesso coraggio, credo, occorre anche ricostruire - a partire da qui - l'anima di una sinistra che non sempre ha mostrato una sensibilità particolarmente reattiva a questi temi, se non in termini di contrapposizione.

lunedì 25 aprile 2011

"La Provincia" del 24 aprile 2011

Uno spettro si aggira per Varese

Trovo abbastanza sconcertante che - da molti, quasi da tutti i candidati Sindaco - venga in questi giorni indicata come priorità cittadina la costruzione, tra le mura della Caserma Garibaldi, del nuovo Teatro Comunale. Pare uno spettro che si aggira per Varese e che ogni tanto fa qua e là la sua comparsa con gran rumor di ferraglie, per lo più - mi pare - solo propagandistiche e certamente senza un pensiero serio relativo alla gestione del dopo e al senso dell'operazione.
Da operatore teatrale, chiedo tuttavia: qualcuno è in grado di spiegare concretamente perchè si tratta di una priorità?  E si tratta davvero di una priorità?

Quel che è interessante e sintomatico nell'intero dibattito sull'argomento - almeno da quando esiste il Teatro Apollonio (che mi ostino pervicacemente a chiamare così in omaggio ad uno dei padri del Piccolo Teatro) - è infatti la varietà sostanzialmente monocorde degli accenti, che raramente si concentrano sul cosa per dedicarsi puntualmente al dove nel suo dato quasi esclusivamente estetico-architettonico. Il Teatro Apollonio è "brutto", il Teatro Apollonio è "freddo", "ha una pessima acustica", "Varese si merita un bel teatro", ecc. ecc.

Ma qualcuno ha mai visto il "Salone CRT" di Via Dini a Milano? Si trova nell'estrema periferia della metropoli, verso Piazzale Abbiategrasso: uno spazio davvero disagevole, basso, decisamente bruttino, a tratti persino un po' inquietante. Ma lì, in quello strano complesso, dalla fine degli anni '70 sono passati tutti i maestri del teatro del Novecento, modificando radicalmente lo stesso teatro italiano, formandone le nuove generazioni: dal Kantor della Classe Morta a Grotowski, da Eugenio Barba al Living Theatre a Peter Schumann. Non sono le mura - o quantomeno non solo - a costruire il teatro: è la sua identità, il pensiero che vi è contenuto. Quel che vi accade, l'arte che vi prende forma.

E' forse per questo che il dibattito sul nuovo teatro comunale - entro gli  estremi in cui si è sostanzialmente svolto sinora - non mi appassiona per niente: perché un teatro, bene o male, c'è già. Coi suoi limiti strutturali ed estetici, (che semmai potrebbero, in parte, essere affrontati in termini di ristrutturazione) ma c'è. Esiste, programma, costruisce cartelloni, attira spesso vasti pubblici. Si tratta di un luogo che ha avuto se non altro il grande merito, in questi anni e dopo l'abbandono del Cinema Impero da parte del Comune, di mantener viva la programmazione cittadina dello spettacolo dal vivo in forma sistematica. A questo si è successivamente aggiunto, in tempi ancor più prossimi, il nuovo Teatro Santuccio, che vive attualmente senza un gestore e - mi pare - senza un pensiero sistematico: uno spazio forse più affascinante ma al contempo, indiscutibilmente, più adatto a forme elementari o semplificate dello spettacolo dal vivo, a incontri, readings, conferenze. Senza dimenticare, poi e infine, la ricchezza anche qualitativa della programmazione del Cinema Teatro Nuovo: uno spazio che potrebbe serenamente aspirare a porsi come primario polo cittadino per il Teatro d'innovazione, un teatro - legato anche al rinnovamento generazionale dei pubblici - di cui si avverte profondamente la mancanza.

Quel che mi appassiona, quindi, non è la discussione dei luoghi in sé quanto piuttosto - come dicevo - una riflessione sulla loro possibile vocazione, nel quadro di un più complessivo esame di quello che potremmo definire - con qualche forzatura - "PGT dello spettacolo" sul territorio cittadino. E il nodo consiste  semmai nel restituire l'Apollonio ad un'idea di teatro pubblico, o quantomeno di teatro anche sul piano qualitativo a funzione pubblica, almeno parzialmente sganciato (come avviene per esempio per la Stagione Musicale) dalle logiche commerciali che inevitabilmente caratterizzano una gestione privata. Quel che mi pare occorre ripensare è un teatro dei cittadini, un luogo che voglia, programmaticamente, sempre più aprirsi ad un pubblico non rituale, che si reca a teatro anche perché avverte il bisogno di esperienze culturali che creino inquietudini, lascino un segno, attivino emozioni, producano spazi per il pensiero. Una dimensione che dunque - nell'oltrepassare la consuetudine del teatro come intrattenimento fine a se stesso o ricerca esclusiva della risata e della spensieratezza - non possa al contrario che divenire luogo di dibattito, occhio aperto sulla contemporaneità e sulle sue contraddizioni, vera e propria piazza per la riflessione di una comunità su di sé attraverso quel che accade in scena (e dopo quel che è accaduto in scena), attraverso la relazione con un'arte che si confronta con il mondo.

Nessuno, significativamente, ha anche solo accennato a tutto questo. E tutto vien sostanzialmente dato per scontato, in un'operazione che pare più legata all'estetica e alla propaganda che al senso delle cose. Nel progetto "Garibaldi/Repubblica" manca esattamente questo - un'idea pubblica rispetto al poi e all'anima culturale del nuovo teatro - ma, soprattutto, una seria valutazione del costo sociale, ambientale ed urbanistico che la città dovrà pagare in termini di ulteriore cementificazione legata allo schema del project financing (la proposta in campo presuppone la copertura dei costi con un nuovo insediamento edilizio di 37mila mq di superficie!). Cosa accadrà della piazza? E dello spazio dove attualmente ha sede l'Apollonio? E siamo certi, davvero certi, che il progetto - in questi tempi di crisi straordinaria del mercato immobiliare a tutti livelli - stia davvero andando avanti? E a quali condizioni?

In conclusione: quel che occorre ripensare prioritariamente - credo - non sono tanto gli spazi ma la politica culturale pubblica, i modelli gestionali, l'investimento in qualità e in progetti di sistema, la capacità di proiettarsi nel futuro pensando alla cultura come ad un investimento per la città e per i suoi cittadini, e non come una spesa. Una nuova cattedrale, priva di risorse e collocata in un deserto di cemento senza questa riflessione a monte non serve proprio a nulla.

giovedì 21 aprile 2011

Perchè mi candido

"Eccomi qua. Sono venuto a vedere lo strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi".

E così, ecco fatto, ho deciso di candidarmi con Sinistra Ecologia e Libertà al consiglio comunale di Varese.
Tornare alla politica. Dopo gli anni giovanili della militanza a tempo pieno, l'impegno professionale degli ultimi venticinque anni si è sempre coniugato con la persuasione che - parafrasando Clausewitz (ma in realtà Gramsci) - il lavoro culturale possa essere considerato "la politica condotta con altri mezzi". Ne sono ancora convinto e credo di aver fatto tanta politica, nel Teatro Ragazzi, al Teatro Verdi, a Gallarate.

"Ai tempi del colera", ai nostri tempi, pare tuttavia che - con eguale efficacia persuasiva - si riproponga con forza la necessità di un'inversione: la politica può essere "la cultura condotta con altri mezzi".

Quanto più, cioè, la cultura diviene materia residuale, oggetto posto al margine del campo visivo dell'orizzonte progettuale della politica e dell'investimento pubblico tanto più - probabilmente - l'operatore culturale deve tornare ad avere la forza, la voglia e la responsabilità di intervenire direttamente in quell'universo, per tentare di orientarne e modificarne direttamente i processi.

E persisto a non credere - anche se molti con buone ragioni ne sono convinti, ed è soprattutto ad essi che occorre parlare - che questa scelta si possa tradurre o semplificare con lo "sporcarsi le mani".

La politica ha certamente a che fare con il potere, è quasi una banalità. E l'idea stessa del potere e delle sue dinamiche e contaminazioni genera - in tanti - ribrezzo, repulsione, disgusto. Come non capirne le ragioni?

E tuttavia il possibile cambiamento passa da lì, e solo da lì: e solo da lì, paradossalmente, il potere può forse essere restituito ad un'idea alta della rappresentanza e della partecipazione. Nell'idea di un potere che, nell'esercitarsi, tende a marginalizzarsi e a rendersi quanto più possibile collettivo. Insincerità? Cazzate? Illusioni di un "giovane cinquantenne"?

Può certamente essere: è proprio questo, tuttavia, il mio approccio ingenuo ma indipendente e libero all'avventura elettorale. Con Sinistra Ecologia e Libertà: la sola forza politica, oggi, in grado a mio modo di vedere di prefigurare a livello nazionale e locale orizzonti non asfittici, di ricollocare al centro dei programmi alcune ragioni fondative dell'essere di sinistra: l'uguaglianza sostanziale, i diritti, il lavoro e la difesa della sua dignità, la scuola, la salute, la casa, l'ambiente, la tutela e la promozione delle diversità, le politiche di Welfare, il primato del servizio pubblico. Verso il possibile disegno di un futuro oggi annientato nell'eterno presente della precarietà, della flessibilità, della volgarità umana e culturale.

Da qui l'idea di "un mondo dove è ancora tutto da fare" e - aggiunge Guccini, rivolgendosi alla figlia - "dove c'è ancora tutto, o quasi tutto da sbagliare". Di un mondo diverso realmente, concretamente, possibile anche attraverso la straordinaria bellezza dell'errore.

Ripartire dal primato della cultura

L'idea di un mondo dove è ancora tutto da fare, di un mondo da cambiare, si misura certamente a partire dai processi economici in atto da decenni, dalla rinnovata pervasività internazionale di un capitalismo che - anche nel nostro paese - invoca ed ottiene un ritorno alle relazioni industriali degli anni '60, da politiche a matrice neoliberista che restituiscono alle dinamiche non regolate (e spesso drogate e monopolistiche) del mercato la pressoché assoluta titolarità della costruzione del futuro, dalla cessione dei diritti di tutti (dall'acqua alla scuola) ad interessi e speculazioni private.

Ma esiste tuttavia - ed è in corso da anni con particolare virulenza e visibilità nel nostro Nord ma estendendosi ormai all'intero Paese -, parallela a questo processo e ad esso probabilmente connessa anche sul piano causale, quella che forse Pier Paolo Pasolini avrebbe chiamato una "mutazione antropologica".

Ma al di là della terminologia che può creare fraintendimenti e badando alla sostanza: quel che è venuto senza dubbio diffondendosi (o che è anche solo uscito dalla latenza) in forme per certi versi sorprendenti - e per fortuna, forse, ancora non maggioritarie nella società civile - è un profondo mutamento culturale.

Il berlusconismo ed il leghismo - in tutte le loro forme - paiono aver avuto in questi anni la funzione di agenti catalizzatori, che hanno portato alla luce, istituzionalizzato, legittimato, nobilitato o reso indifferenti alla percezione etico-civile ed al giudizio sottovalori e disvalori di cui, solo pochi anni fa, ancora un po' ci vergognavamo: dal dominio dell'apparire a quello del denaro, dall'egoismo alla furbizia, dalla disonestà all'intolleranza, dall'ingiustizia al razzismo, dall'ignoranza alla prepotenza.

A contraltare, appaiono dunque a tratti romanticherie di un tempo antico la solidarietà e l'uguaglianza, la sensibilità e persino la pietà, la cultura, la dignità e lo spessore umano, l'intelligenza, la sobrietà, l'onestà, il decoro...

Troppo facile - sebbene certamente non del tutto infondato - imputare alla sola pervasività onnipresente della televisione e della sua progressiva e drammatica deriva qualitativa questa sconcertante involuzione del "carattere nazionale". Si tratta, più probabilmente, dell'effetto congiunto di politiche condotte su più fronti (dal depauperamento della scuola ai tagli sulla ricerca e sulla cultura) - forse peraltro, almeno inizialmente, senza un disegno sebbene successivamente sempre più consapevoli e mirate - il cui comun denominatore si può sostanzialmente sintetizzare nella riduzione progressiva della coscienza critica, etica, civile, politica e culturale della cittadinanza.

In un sostanziale processo di complessiva analfabetizzazione civica, il cui effetto è la scomparsa degli anticorpi impliciti nella diffusione della cultura, dell'istruzione, della coscienza critica, della comprensione, del pensiero e della bellezza. In una parola: nella dissoluzione del civis e della polis - soggetto e luogo della condivisione consapevole - per la loro trasformazione in obiettivi e luoghi della manipolazione, della propaganda e della costruzione del consenso.

Da qui l'idea del primato della cultura - in senso ampio - come condizione per quell'idea di un mondo diverso. Senza una politica pubblica volta, con radicalità, ad una possibile ricostruzione di quel tessuto di sensibilità, conoscenza e di quel repertorio di strumenti di comprensione del mondo l'idea di cambiamento rimane poco più che una petizione di principio. Il cambiamento - se sarà possibile, quando sarà possibile - potrà muovere solo da una rinnovata, persistente, sistematica cura delle teste e delle anime, attraverso la proliferazione (e la difesa, la tutela, il finanziamento anche a discapito della cura dei tombini, della viabilità, dell'illuminazione stradale) di occasioni stabili, continuative ed accessibili di arricchimento culturale multidimensionale per l'intera cittadinanza, a partire dai bambini e dall'attenzione privilegiata delle politiche pubbliche loro indirizzate.

In questo senso - con Dostoevskji - la bellezza salverà il mondo.

domenica 17 aprile 2011

La politica culturale pubblica tra servizio e valore

Immagino la cultura di una città come un’atmosfera, un ambiente, una vasca nella quale siamo permanentemente immersi e che può – o meno – essere densa di una pluralità di potenzialità di accesso ad un’occasione di arricchimento. In questo senso, sul piano dei principi, a monte della definizione di qualsiasi politica pubblica risiede la necessità di sciogliere la contraddizione – a mio parere solo apparente, ma che storicamente ha prodotto straordinari disastri - tra la cultura come servizio e la cultura come valore.

Parafrasando Paolo Grassi, una politica culturale pubblica coincide con lo slogan cultura di qualità (l’aggettivo è fondamentale: Grassi parlava di "teatro d'arte") per tutti. E la mia convinzione è che solo nel carattere rigorosamente unitario di questi due poli, nella necessità della loro congiunzione risieda una possibile idea-guida: il valore (la qualità) si connette al servizio (per tutti) in una proposizione che definisce al contempo un oggetto e il suo significato: l’idea di cultura pubblica.

E la dimensione del servizio, soprattutto, acquista la fisionomia di un’idea regolativa, i tratti di definizione di un diritto di accesso alla cultura di qualità. Non la definizione di un’attualità ma di una potenzialità. Del diritto al godimento di un valore.

La declinazione e la conseguenza di questa visione è un’idea della spesa pubblica per la cultura come necessario supporto del permanere di questa potenzialità: finchè l’estensione del godimento di questo diritto è concepita come un valore democratico (quindi anche il servizio è in realtà un valore), l’intervento pubblico si argomenta di principio in termini economici (necessità di politiche di agevolazione dell’accesso, politiche dei prezzi, ecc.) ma al contempo politici. In quest’ottica l’idea della cultura come servizio implica esclusivamente la produzione, proliferazione e diffusione di valori e la tensione alla massima estensione possibile, seppur potenziale, al godimento di quei valori.

Ma la dicotomia tra servizio e valore non è banale o di semplice soluzione: tanto più viene enfatizzata l’idea di servizio, infatti, quanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare – misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio stesso. Dalla televisione all’editoria al teatro, così, il primo dei due poli – la cultura di qualità – è stato declinato (al presente e al passato) lungo la prospettiva della semplificazione. “Per tutti” si è tradotto nel principio del “gradimento”, dell'audience, secondo cui se la cultura non è goduta, se il suo valore d’uso non viene consumato è forse meglio, allora, ridurre le aspettative. Se servizio deve essere, allora deve essere la risposta ad una domanda attuale, la soddisfazione di quella domanda, il modellare qualsiasi offerta su quella domanda. Il servizio diviene valore in sé, determinando una sostanziale mortificazione dell’istanza culturale, in una semplificatoria visione del mondo a matrice neo-liberista, in base alla quale tanto più senso possiede un servizio quanto più questo, nel presente viene consumato, usato, in una filosofia che declina sempre più il cittadino nel suo ruolo esclusivo di utente e consumatore.

L'idea di cultura pubblica risiede, invece, in una visione multidimensionale dell’uomo e del cittadino ed evidenzia come un ambiente caratterizzato dalle molte possibilità di formazione, dalle notevoli e diversificate risorse acculturanti, dalla pluralità degli stimoli cognitivi creano personalità e cittadini intelligenti, flessibili, in grado di operare nella contemporaneità con un repertorio di strumenti comportamentali e conoscitivi che incide drasticamente sulla qualità della vita ma anche sul PIL, sui tassi occupazionali, sull’imprenditorialità diffusa, sulla crescita complessiva di una comunità e della sua civiltà e fisionomia, lungo l'idea di capability della filosofia economica di Amartya Sen. Non è molto nuovo, in realtà. E’ la vecchia e sempre attuale convinzione di Dario Fo secondo cui “L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000; per questo è lui il padrone”.

La città, in questa visione, deve essere modellata come una casa, come ambiente facilitante, senza relazioni banalizzanti tra domanda ed offerta di cultura. Da cui la necessità di una riflessione, spesso da sinistra rifuggita con qualche imbarazzo, sull’antica querelle della dicotomia tra una cultura “alta”, che si vorrebbe strutturalmente élitaria, borghese, oligarchica ed una cultura popolare che si vorrebbe, all’opposto, “bassa”, di massa, a largo consumo. Shakespeare contro I Legnanesi, Kieslowski contro Vanzina.

La mia persuasione, e lo confesso ormai senza alcun imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione progressista e di sinistra, è che – senza esclusività - la cultura non è assimilabile all'intrattenimento, che il luogo della politica culturale pubblica debba essere il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski. Che la ratio del Welfare in campo culturale sia la promozione ed il sostegno della cultura “alta” e delle politiche organizzative e formative volte alla possibilità di rendere questa cultura sempre più tendenzialmente diffusa e popolare. Per le ragioni che ho detto all’inizio. Ma, ancor più incisivamente, perché – in una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo, maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior disequilibrio di mercato.

Ma credo necessario un chiarimento, sia per fugare la sensazione di un approccio snob sia per esprimere meglio l’idea di cultura “alta”. Provo con un esempio: la mia vita professionale è stata per lungo tempo quasi interamente dedicata allo spettacolo e alla cultura per l’infanzia, per i bambini, nei quali vedo con grande chiarezza – sempre più man mano che passano gli anni e i capelli si fanno bianchi – il più “alto”, serio e sincero spettatore dello spettacolo dal vivo. In questo senso – senza attribuire alle aggettivazioni il significato usuale – una programmazione “alta” è una programmazione che vede l’infanzia come centro fondamentale dell’attività, nella direzione del futuro, della semina in vista del raccolto di domani. L’idea di cultura “alta”, cioè, coincide con l’idea che la cultura e l'accesso alla cultura si configurino come un vero e proprio diritto civile, un bene pubblico. Che la cultura (ammesso che si possa avere un'idea condivisa di ciò che il termine significa) possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti, essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia o dell'arte contemporanea, mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne fanno parte.

La scommessa da sinistra, dunque, è che questa cultura come potenzialità, questa cultura-orizzonte, questa cultura-futuro, questa cultura di cui a mio parere la nostra città ha disperato e vitale bisogno possa diventare ossigeno quotidiano. E che la scommessa sia, poi, quella giocata sul tavolo dell’efficienza organizzativa, delle politiche di accesso, della formazione, aggregazione e promozione del pubblico e della cittadinanza in tutte le sue componenti etniche, sociali, anagrafiche.

Adottando la favola della volpe e l’uva, politica pubblica per la cultura significa lavorare per alzare la statura della volpe, non abbassare sempre più il pergolato. 

Sostenere l'insostenibile

Nelle condizioni in cui versa attualmente la finanza pubblica, un programma politico volto al sistematico sostegno della cultura rischia di rimanere al livello della pura astrazione teorica, demagogica o ideologica.

Credo fortemente, tuttavia, che la politica - anche quella amministrativa - debba tornare a tracciare orizzonti ideali e principi, evocare ancora sogni come idee guida, mappe possibili di mondi possibili.  Tutto, in caso contrario, rischia, nel quotidiano - e a prescindere dalla volontà di ciascuno -, di ripiegare nella gestione dell'esistente, nella presa d'atto, in una sostanziale rassegnazione.

Percorrere l'approssimazione al mondo dei sogni significa anche dunque, credo, forzare l'immaginazione politica costringendola - nel confronto con la concretezza - ad un livello comunque alto, ancorché sostenibile, di elaborazione e proposta.

La domanda, nella sua crudezza ed apparente semplicità, è: fatto salvo il quadro di bilancio realmente drammatico - in buona misura a causa dei tagli dei trasferimenti statali e regionali e ai vincoli imposti dal patto di stabilità -  in cui il Comune di Varese si troverà anche in prospettiva ad operare, com'è possibile percorrere realmente queste politiche di rilancio delle attività ed istituzioni culturali?

Se, per un verso, sul versante delle uscite rimane del tutto naturale e non astratto il principio dell'inversione delle priorità (che implica banalmente, in base a scelte indiscutibilmente anche politiche, la riallocazione sul capitolo "Cultura" di risorse originariamente riversate su altre sezioni del bilancio), è però possibile immaginare interventi a carattere anche fortemente innovativo sul versante del possibile reperimento di nuove entrate.

Tre idee per sostenere l'insostenibile: tre idee, peraltro, che - pur molto marcate sul piano politico - potrebbero configurarsi a mio modo di vedere come programmi di ricerca, studio ed elaborazione a carattere trasversale tra gli schieramenti (e che, come strumenti formali, potrebbero essere in realtà percorse anche per altri ambiti delle politiche di Welfare).

(a) Tassa di scopo

Si tratta di un'ipotesi la cui reale percorribilità - anche teorica - dipende dai vincoli definiti al riguardo dal decreto sul federalismo (che pare limitarne la possibilità ad interventi strutturali e ad investimenti in conto capitale) ma in generale, ed in prospettiva, dai futuri possibili percorsi delle linee di decentramento fiscale.  
L'idea di base consiste nell'indizione di uno strumento di consultazione dei cittadini - anche telematico e a basso costo - per chieder loro se sono disponibili all'introduzione di specifiche tasse di scopo pluriennali espressamente dedicate al sostegno delle attività culturali (con coefficienti variabili di natura progressiva - ossia scaglionati in base al reddito - anziché proporzionale, definite in forme precise, trasparenti, destinate a progetti, iniziative o istituzioni chiare ed individuabili).

La chiave di volta di questa ipotesi, al di là del suo contenuto economico, è da individuarsi nella sua premessa, rischiosa ma a mio modo di vedere sempre più necessaria (anche in chiave di legittimazione politica delle istanze del mondo della cultura): la consultazione preliminare dei cittadini.

In questo modo, infatti: (a) l'ente pubblico - come direbbero ad anatema i neo-liberisti di vario colore (quasi fosse uno scandalo) - mette le mani nelle tasche dei cittadini; (b) ma in forma esplicita, con chiara definizione dello scopo e soprattutto chiedendo il loro parere su senso, opportunità e sostenibilità dei sistemi e progetti culturali locali.

Vi è naturalmente un corollario fondamentale che rende razionale questa ipotesi, anche in caso di - certamente possibile - esito negativo delle consultazioni: la tassa di scopo e il gettito che ne deriverebbe dovrebbe ricoprire una funzione additiva e complementare rispetto alla spesa in campo culturale definita ordinariamente nei bilanci comunali e compatibile con le politiche e le risorse dell'amministrazione. Si tratterebbe, cioè, di un volano ed un moltiplicatore - qualitativo e quantitativo - per l'incremento delle attività, da un lato, e per il perseguimento di politiche più efficaci di contenimento dei prezzi al pubblico, cioè di sostegno della domanda. Un esito negativo non sospende quel che tutti riteniamo un diritto della collettività ma - semmai - ne limita la piena realizzazione: un dato che, del resto, stiamo tutti subendo da anni in qualsiasi caso.

(b) Organizzazione/istituzione ad azionariato diffuso

L'idea - elaborata sinteticamente nel programma di Sinistra Ecologia e Libertà - consiste nella costituzione di un'organizzazione (Una fondazione? Un'associazione? La forma non è fondamentale purché si tratti di una realtà costitutivamente senza finalità di lucro) a partecipazione mista pubblico-privata nella quale confluiscano - mantenendo la propria sostanziale autonomia  e specificità vocazionale e trovando rappresentanza e terreno di lavoro individuale e comune, sulla base di criteri da individuare collegialmente - le numerosissime realtà culturali cittadine attualmente disperse, non coordinate tra loro ed anzi spesso concorrenziali (e al contempo prive di risorse). Un'esperienza analoga di straordinario interesse, sul versante teatrale per l'infanzia, è da anni in corso per esempio a Torino.

Potrebbe trattarsi - in forma realmente partecipata e paritetica - di una forte, matura e significativa risposta, di iniziativa pubblica, alla litania ripetuta a più riprese in questi anni dal Sindaco Fontana (non senza qualche ragione, ma sostanzialmente come alibi) rispetto agli "orticelli" individuali coltivati dalle singole associazioni ed organizzazioni e non in grado di costruire prospettive di dialogo. Potrebbe, al contempo, essere per esempio l'occasione per una gestione multidisciplinare, sistematica, coordinata, collegiale del Teatro Santuccio, che - nella sua bellezza - pare paradossalmente oggi rappresentare per l'Amministrazione un problema più che una risorsa.

Ad azionariato diffuso, dicevo tuttavia: fatta salva la necessità di un contributo e riconoscimento pubblico, la chiave di volta dell'idea coincide con l'istituzione di un'organizzazione culturale come "sistema aperto", strutturalmente connesso con il ruolo ad esso riconosciuto, anche sul piano economico, dai singoli cittadini,  condiviso in itinere, soprattutto reso trasparente (per esempio attraverso la pubblicazione dei bilanci), partecipato e indipendente (il modello più interessante rimane, a mio modo di vedere, quello di Radio Popolare). Al di là dei dati "tecnici" legati all'economia aziendale (il termine "azionariato diffuso" non necessariamente deve essere collegato all'effettiva costituzione di una S.p.A.: è un concetto, a mio modo di vedere, di natura più "evocativa" che strettamente aziendalistica), l'idea ha qualcosa di estremamente affascinante dal punto di vista politico e del senso della democrazia e, insieme, ha nuovamente il sapore di una scommessa: da un lato sul versante dell'efficacia e capillarità (dal porta-a-porta a banchetti permanenti in città) delle politiche di fund raising che - dalla sempre più precaria relazione con l'universo delle imprese - si vanno spostando sul terreno della connessione stabile con gli individui, nella direzione esplicita di una cultura dei e per i cittadini; dall'altro, ovviamente, sul versante dell'effettiva verifica sul campo di questa, ipotetica, necessità ed organicità territoriale.

Da questo punto di vista - al di là delle procedure standard e più o meno di routine della comunicazione - credo che un ruolo potenzialmente molto interessante potrebbero avere i nuovi canali di relazione offerti dai social networks ed un intenso (e probabilmente non facile) lavoro di immaginazione organizzativa, in grado di creare - non solo sul piano "virtuale" - una vera e propria comunità di sostegno, anche affettivamente raccolta intorno all'organizzazione, con occasioni di incontro, dibattito, scambio, reciprocità che rafforzino - e rendano significativa per ciascuno, oltre l'ordinaria programmazione - la scelta di sostenere l'attività: penso alle innumerevoli relazioni virtuose e strutturali che si potrebbero consolidare, per esempio, con le famiglie che portano i bambini a teatro, con il meraviglioso pubblico di "Cortisonici", con gli amanti della poesia e della letteratura, con il pubblico del Teatro Apollonio (che mi ostino, imperturbabile, a chiamare così!)...

Si tratta - ne sono perfettamente consapevole - di un'opzione caratterizzata da una notevolissima complessità di connessione ed organicità al territorio, per uno sforzo straordinario di natura organizzativa e comunicazionale e per una sostanziale, e quasi connaturata, precarietà ed aleatorietà. Ma si tratta tuttavia, al contempo, della scelta che più radicalmente marca la tendenziale e possibile indipendenza delle organizzazioni - sia pure pubblicamente partecipate e riconosciute - da gruppi di potere, stakeholders e pressioni di natura politica per rivolgersi prioritariamente al destinatario naturale dell'attività: la comunità locale, i pubblici, i frequentatori di musei e mostre.

(c) Responsabilità sociale (obbligatoria) d'impresa.  

Infine un'istanza fortemente politica, che nasce soprattutto da un'analisi della mia lunga esperienza gallaratese ma che credo valida, a titolo di principio, in generale e quindi in particolare a Varese, come vertenza a carattere anche culturale e civile.

Gallarate si è in questi anni caratterizzata - credo molto visibilmente - per uno sviluppo delle attività culturali (dalla Fondazione Culturale al MA*GA) realmente abnorme e eccezionale. A prescindere dai meriti, dai demeriti e dalle contraddizioni di quanto avvenuto a Gallarate negli ultimi sei anni - che non è materia di discussione qui e ora - quel che è certo è che il costo sociale più visibile ed evidente di questo sviluppo - sino a tempi recenti - è stato sostanzialmente pagato dalla città (soprattutto nelle aree periferiche) attraverso una mortificazione della qualità del contesto urbano, segnato per tutto il primo decennio del 2000 da una progressiva e costante cementificazione, accompagnata da rilevantissime entrate derivanti da oneri di urbanizzazione.

Ora: nell'ambito di un convegno svoltosi a Bologna lo scorso anno, Roberto Calari - responsabile culturale di Legacoop dell'Emila Romagna - ha svolto un'impressionante relazione sulla "responsabilità sociale dell'impresa" a sostegno del teatro (qui, http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=125&ord=15, per chi volesse approfondire). Impressionante, dicevo: vi si delineava un universo cooperativo che si configura, in quelle "repubbliche ex-sovietiche", come partner stabile e straordinario "compagno di strada" del teatro.

Straordinario. Ma come molti partecipanti al convegno, tuttavia, temo di aver avuto la sensazione che si parlasse di un altro mondo. Questo perchè il riconoscimento della propria responsabilità sociale, in quell'accezione, è naturalmente frutto di intenzionalità, emergenza fattuale della cosiddetta "cultura dell'impresa", dei suoi orientamenti rispetto alla comunità territoriale (il "giving back to community"), ecc.

La mia persuasione è che al contrario - penso per esempio alla Lombardia dell'Expo 2015 - la responsabilità sociale delle imprese sia invece un fatto, il cui riconoscimento andrebbe sottratto all'aleatorietà della "coscienza" aziendale (un mito, in larga misura, che ricorda molto i pii desideri sulla "bontà" del capitalista espressi dai socialisti utopisti del primo Ottocento). Un fatto: legato - per esempio e appunto - al deterioramento di qualità del tessuto e del contesto urbano, alla riduzione o localizzazione del verde pubblico, alle implicazioni sull'inquinamento dell'aria. Una responsabilità oggettiva, che è continua nel tempo e non si può concepire come "conciliabile", una tantum, sostanzialmente solo via pagamento degli oneri di urbanizzazione.

Ora: se é del tutto evidente che a tutto questo vada, quanto prima, posto un freno e che sarebbe insieme irrazionale e criminale collegare causalmente il cemento alla cultura (il primo come condizione della seconda), credo sia invece giusto e quasi "naturale" prevedere che i processi di cementificazione già in essere o in via di deliberazione (penso per esempio al futuro PGT varesino) vengano, obbligatoriamente, connessi a tributi pluriennali che - ancora una volta - restituiscano qualità della vita alla comunità, destinando risorse ad un arco di investimenti pubblici che vanno dalla spesa sociale, al diritto allo studio, alle istituzioni culturali e teatrali. Una sorta di tassa obbligatoria per la responsabilità sociale d'impresa.

Pensate che bello immaginare un Caprotti o un Ligresti che - per una volta - vengono obbligati a restituire qualcosa, almeno qualcosa, alla comunità... Ma si tratta, forse, dell'ennesimo sogno ad occhi aperti.

Teatro Pubblico

Uno spettro si aggira, da anni, per Varese: lo spettro del Teatro Comunale. Anche nel corso degli ultimi tempi, il fantasma si è nuovamente manifestato - con maggior "consistenza ectoplasmatica", direbbe un ghostbuster - tra le mura della Caserma Garibaldi. Luogo, del resto, appunto sempre più spettrale.  

Quel che è interessante e sintomatico nell'intero dibattito sull'argomento - almeno da quando esiste il Teatro Apollonio - è la varietà sostanzialmente monocorde degli accenti: che raramente si concentrano sul cosa per dedicarsi puntualmente al dove nel suo dato quasi esclusivamente estetico-architettonico. Il Teatro Apollonio è "brutto", il Teatro Apollonio è "freddo", "ha una pessima acustica", "Varese si merita un bel teatro", ecc. ecc.

Qualcuno ha mai visto il "Salone CRT" di Via Dini a Milano? Si trova nell'estrema periferia della metropoli, verso Piazzale Abbiategrasso: uno spazio davvero disagevole, basso, decisamente bruttino, a tratti persino un po' inquietante. Ma lì, in quello strano complesso, dalla fine degli anni '70 sono passati tutti i maestri del teatro del Novecento, modificando radicalmente lo stesso teatro italiano, formandone le nuove generazioni: dal Kantor della Classe Morta a Grotowski, da Eugenio Barba al Living Theatre a Peter Schumann. Non sono le mura - o quantomeno non solo - a costruire il teatro: è la sua identità, il pensiero che vi è contenuto, in una parola la direzione artistica.

E' forse per questo che il dibattito sul nuovo teatro comunale - entro gli  estremi in cui si è sostanzialmente svolto sinora - non mi appassiona per niente: perché un teatro, bene o male, c'è già. Coi suoi limiti strutturali ed estetici, ma c'è. Esiste, programma, costruisce cartelloni, attira spesso vasti pubblici. Un luogo che ha avuto se non altro il grande merito, in questi anni e dopo l'abbandono del Cinema Impero da parte del Comune, di mantener viva la programmazione cittadina dello spettacolo dal vivo in forma sistematica. A questo si è successivamente aggiunto, in tempi ancor più prossimi, il nuovo Teatro Santuccio: uno spazio forse più affascinante ma al contempo, indiscutibilmente, più adatto a forme elementari o semplificate dello spettacolo dal vivo, a incontri, readings, conferenze.  

Quel che mi appassiona, quindi, non è la discussione dei luoghi in sé quanto piuttosto - come dicevo - una riflessione sulla loro possibile vocazione e funzione pubblica, nel quadro di un più complessivo esame di quello che potremmo definire - con qualche forzatura - "PGT dello spettacolo" sul territorio cittadino.

E, da questo angolo visuale, mi pare indiscutibile che la politica del Comune di Varese si sia venuta caratterizzando in questi anni per due percorsi paralleli ma al contempo oggettivamente un po' schizofrenici: da un lato il forte rilancio - significativamente sostenuto sul piano economico e culturale (peraltro e giustamente senza alcuna "ansia da pareggio" di bilancio) - di una Stagione Musicale di profilo anche internazionale elevatissimo, elaborata da una direzione artistica di straordinaria competenza ed apertura; dall'altro invece, e al contempo, dal progressivo ripiegamento - sino all'azzeramento dell'investimento economico (e ci pare, anche in questo caso, culturale) - sul versante del Teatro di Prosa ed in generale della programmazione e gestione del Teatro Apollonio: abbandonando anche quegli scampoli di "occhio pubblico" sulla prosa che, fino a poco tempo fa, venivano quantomeno testimoniati dall'enclave della "Stagione Teatrale Comunale" che faceva la sua comparsa (con qualche effetto di "straniamento") nel quadro del più complessivo cartellone privato dell'Apollonio.

Il quadro dello spettacolo dal vivo, quindi, pare caratterizzarsi per un riconoscimento della funzione pubblica (e per il corrispondente finanziamento) della musica classica e per una, parallela, esternalizzazione al privato dell'universo della prosa (ma, in generale, di tutte le altre espressioni della scena). Una scelta, peraltro, a mio avviso meritoriamente non fondata su ragioni di natura contabile, dal momento che la stagione musicale produce giocoforza significativi disavanzi. Una scelta, però e al contempo, oggettivamente un po' dissonante: la prosa non merita un occhio ed un sostegno pubblici? O invece - retropensiero mai esplicitato - l'esistenza di un gestore privato dell'Apollonio è stato colto come un'occasione per attribuire ad esso, sic et simpliciter, una funzione pubblica?  

Si tratta probabilmente dell'esito di una più o meno consapevole fusione di entrambe le ipotesi. Una visione che, tuttavia, non tiene conto del fatto che attribuire d'emblée ad un privato - che, come tale, deve legittimamente posizionarsi nel mercato ed esserne condizionato - una funzione che, come dimostra la stagione musicale, dalla dinamica del mercato deve almeno in parte emanciparsi rischia inevitabilmente di "commercializzare" il ruolo culturale della prosa, diluendola nella logica pressoché esclusiva della "chiamata", del "nome", del "botteghino" ponendo in subordine la valutazione artistica e qualitativa (e quindi l'effettiva funzione pubblica della programmazione).[1] Un dato testimoniato, del resto, dalla progressiva emorragia del tradizionale pubblico e degli abbonati alla Stagione di Prosa, che - avvezzi storicamente ad una qualità significativa della programmazione - si sono in questi anni lentamente allontanati da cartelloni sempre più ispirati allo svago e alla commedia brillante e sempre meno alla proposta di repertorio del teatro d'arte.

Ora: le prospettive aperte dai più recenti sviluppi, anche formali, relativi alla destinazione della Caserma Garibaldi quale possibile sito del nuovo teatro stabile (attraverso lo strumento del project financing) lasciano tuttavia per ora del tutto indeterminata la valutazione del costo sociale dell'operazione (l'impatto complessivo di quella che rischia di essere una vera e propria "colata di cemento" su Piazza Repubblica) e al contempo qualsiasi valutazione del modello gestionale che ne caratterizzerà organizzazione, funzione, vocazione, vita ed attività. Sarà una sostanziale riedizione - probabilmente con nuovi gestori - del modello-Apollonio (ossia a tutti gli effetti di un teatro privato)? Se quest'operazione andrà avanti, quali modelli relazionali/convenzionali regoleranno il ruolo pubblico del nuovo teatro e il suo rapporto anche economico con l'Amministrazione? In che senso potrà essere considerato, a tutti gli effetti, teatro di Varese?

Ora: è mia persuasione che - anche a fronte del drammatico quadro finanziario nazionale e locale - la politica culturale del centro-sinistra non possa rinunciare ad una prospettiva di seria e realistica, ma al contempo radicale, riconsiderazione delle priorità cittadine abdicando all'occasione quasi storica e certamente strategica di approdare, finalmente, alla realizzazione di un teatro pubblico a Varese. Un teatro dei cittadini, un luogo che voglia, programmaticamente, sempre più aprirsi ad un pubblico non rituale, che si reca a teatro anche perché avverte il bisogno di esperienze culturali che creino inquietudini, lascino un segno, attivino emozioni, producano spazi per il pensiero. Una dimensione che dunque - nell'oltrepassare la consuetudine del teatro come intrattenimento fine a se stesso o ricerca esclusiva della risata e della spensieratezza - non possa al contrario che divenire luogo di dibattito, occhio aperto sulla contemporaneità e sulle sue contraddizioni, vera e propria piazza per la riflessione di una comunità su di sé attraverso quel che accade in scena (e dopo quel che è accaduto in scena), attraverso la relazione con un'arte che si confronta con il mondo. E' l'antica dimensione della polis, che pare poter sopravvivere - in tempi di smemoratezza, indifferenza, crisi, chiusura - solo attraverso la ricostruzione di spazi protetti, in cui abbia luogo realmente un incontro tra persone e culture.

Un teatro, inoltre, aperto ad un'innovazione della scena che si riverberi anche e soprattutto in platea, nel pubblico, nella sua composizione culturale ed anagrafica: nella convinzione che – al fianco di un’offerta di alto valore culturale ampiamente e, sul piano artistico, incredibilmente sottostimata a livello nazionale – esista, al contempo, una corrispondente forte domanda, a carattere anche e soprattutto generazionale, spesso inespressa per mancanza di occasioni. Esiste cioè un teatro non paludato, fresco, contemporaneo, in grado di rivolgersi alle giovani generazioni attraverso arte, ricerca, linguaggi e temi del nostro tempo. E pare al contempo – stando alle più recenti rilevazioni – che via sia un rinnovato interesse dei giovani per il teatro, per i suoi contenuti e per il portato di relazione che porta con sé.

Un teatro pubblico che sia, infine, sostenibile: in grado di coniugare, per quanto possibile, l'alta qualità della proposta con un'intensità di programmazione realmente assorbibile dalla città e che sia al contempo - anche per forma giuridica - in grado di accedere alle risorse aggiuntive provenienti dalle Fondazioni bancarie (Fondazione Cariplo in primo luogo) ma anche dall'universo della cosiddetta "responsabilità sociale d'impresa" (penso anzitutto alle Coop).

Concludo riprendendo Paolo Grassi e il "Manifesto del Piccolo Teatro", tuttora - a 60 anni di distanza -  modello teorico e pratico insuperabile dell'idea di teatro pubblico:

"Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d'Italia, è promosso dall'iniziativa di taluni uomini d'arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell'autorità fattiva di chi è responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni [...] Noi vorremmo che autorità e giunta comunali, partiti e artisti si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno del cittadino, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei Vigili del Fuoco".   

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[1] Intendiamoci: dall'"estremismo giovanile" dei miei primi anni di lavoro in teatro molta acqua è passata sotto i ponti, ed ora non credo più nella simmetria inversa tra notorietà e qualità artistica. Non vale in entrambi i sensi: non è detto (quasi mai) che l'underground implichi una particolare qualità, così come non è detto che la coda al botteghino (e quindi la risposta commerciale) significhi che lo spettacolo è scadente. Ovviamente, e forse più radicalmente, non vale però neppure il contrario. Quel che differenzia i due approcci di programmazione (del teatro privato e del teatro a  funzione pubblica) è, o meglio dovrebbe essere, il processo decisionale e il differente primato che viene attribuito alla risposta commerciale rispetto alla scelta artistica. Poi, è evidente, in entrambi i casi almeno in parte i due criteri di valutazione si armonizzano e fluidificano nel tentativo di raggiungere un equilibrio tra, potremmo dire, coerenza e sostenibilità.

Lettera a mia figlia. Lettera ad una figlia

Cara Renata,

non so bene perché, proprio stamattina - lungo il tratto di strada che mi portava in ufficio - mi è venuta questa voglia irresistibile di scriverti. Ma mi piacerebbe anche - scrivendo a te - parlare a tutti i ragazzi della tua età, e a quelli un po' più grandi e a quelli che verranno. Scusa, quindi, se condividerò questo momento molto personale tentando di farlo diventare ragionamento pubblico. So che capirai.

Perchè questo bisogno? Forse perché i telegiornali ritraggono, ogni giorno di più, un mondo ed un Paese che mi atterriscono e terrorizzano. Forse perché, da giorni e in relazione a questo, mi vorticano in testa due canzoni del "mio" Guccini, entrambe dedicate alla figlia. Del resto tutta questa lettera si muoverà attraverso le canzoni.

Tu, giustamente, preferisci "Glee" e Avril Lavigne: però, dai, quante volte abbiamo sbraitato insieme, nei viaggi in macchina, "Don Chisciotte" e "Cyrano" obbligatoriamente puntando il dito, a mo' di spada, sul ritornello ("io non perdono e tocco!")?

In una di quelle canzoni - "Culodritto" - Francesco invita la figlia, con qualche rimpianto, a volare "verso un mondo dove è ancora tutto da fare" e nell'altra - "E un giorno" - ne vede la crescita e la maturazione, specchi paralleli del suo invecchiare, e conclude: "sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po' folle un po' saggio nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio. La paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato, la paura e il coraggio di dire: io ho sempre tentato".

Io e tua madre abbiamo sempre tentato. Abbiamo sempre tentato di insegnarti poche cose semplici e al contempo difficilissime: che le cose più belle ed importanti della vita nascono - e si conquistano - a partire dalla gentilezza e dalla bontà, dall'altruismo e dalla generosità, dalla disponibilità e dall'apertura a riconoscere in noi ma soprattutto nei tuoi amici, nei tuoi compagni di classe, nei tuoi insegnanti l'esistenza di un mondo ricco e colorato, dal quale imparare giorno dopo giorno. Abbiamo cercato di farti comprendere quanto è importante la curiosità, studiare, sapere e capire, anche con fatica. Che esiste - l'hai sempre avvertito, del resto, con l'istinto egualitario dei bambini - quella cosa che chiamiamo "giustizia": e che la giustizia nasce dal riconoscimento e dalla promozione dell'esistenza degli altri, di tutti gli altri. E che quindi implica uguaglianza, regole e libertà. Anche di quelli che ci danno un grande fastidio, e sono tanti, e a volte vorremmo prenderli a schiaffi. Sono "come te" anche - e soprattutto - perché sono diversi da te. Che non ha senso essere amici di tutti (e non esagerare con facebook!) ma che è splendido essere disponibili a diventarlo.

Abbiamo cercato di insegnarti che tutto questo è l'essenza di quella cosa che chiamiamo "umanità". Una cosa che porta con sé anche la pietà istintiva, la sofferenza per chi soffre, uno strano - e difficile da raggiungere - senso della "totalità" e di quella che mi piace considerare la "comunione laica" del genere umano: quella cosa che ti fa piangere davanti ad un TG o ad un documentario ma anche guardando un film o leggendo un romanzo o assistendo in teatro alla tragedia adolescenziale di Giulietta e Romeo. Ma che ti fa anche ridere di fronte alla bellezza, alla natura, alla gioia, agli happy end: abbiamo cercato di insegnarti anche quella cosa preziosa che è il senso dell'umorismo...

Abbiamo tentato di proteggerti ogni giorno, crescendoti nella speranza e nella fiducia e senza mai insegnarti la paura, che è la vera madre dell'odio. Proteggerti, ma senza concederti alibi: abbiamo cercato di farti capire che gli insegnanti possono a volte anche sbagliare, ma hanno quasi sempre ragione e i tuoi risultati scolastici sono solo tuoi. Che gran parte di quel che sarai dipende anche da te, da quante cose saprai e da come le saprai. Che quel che avrai dipenderà da ciò che sarai.

Sei un po' bassa di statura e probabilmente non diventerai una gigantessa: i cromosomi di famiglia, ahimé, non promettono niente di buono. Quegli stessi stupidi cromosomi che ti hanno regalato la miopia e gli occhiali già diversi anni fa. Abbiamo cercato di insegnarti che tutto questo non conta nulla, proprio nulla. L'hai capito benissimo: e ti vedo tutti i giorni fuori da scuola attorniata da compagni e compagne che ti abbracciano, con cui chiacchieri e ridi. Vi volete bene e vi stimate. Siete ancora capaci di capirvi ed amarvi oltre la statura. La vostra bellezza - dei ragazzi e soprattutto delle ragazze - non ha niente a che vedere con la carta patinata.

Tutto questo abbiamo cercato di insegnarti. Domani, tra non molto, capirai che tutto questo - questo insieme di valori di base - non è altro che politica. Un certo modo di considerare la politica e il suo intreccio indissolubile con l'etica. Quella cosa strana che, con Kant, insegna - potrebbe insegnare - che il fine implicito ed ultimo dell'azione umana, tra le mille approssimazioni e contraddizioni di ciascuno, dovrebbe essere la promozione dell'umanità stessa e della sua dignità.

Però domani, tra non molto, scoprirai forse che ti abbiamo insegnato un oceano di sciocchezze, un mucchio di vuote ingenuità: che studiare non serviva a nulla e che commuoversi guardando "E.T." o leggendo "Margherita dolcevita" era una stupida debolezza infantile; che il denaro è davvero in grado di comprare vite ed idee, carriere e futuro, spianando tutto; che la fatica è inutile, che la sensibilità è l'ultimo rifugio degli scemi, che la cultura non si mangia. Che quel mendicante lì all'angolo della strada va cacciato, perché "è brutto" e rovina l'arredo urbano. Ti scatterà "il servofreno dentro il cuore" - direbbe Vecchioni - per acquistare la beatitudine dell'indifferenza, la maschera neutra del farsi i fatti propri.

E scoprirai, forse, che il pertugio che porta al futuro si fa sempre più stretto e che quel vecchio del secolo scorso - "Come si chiamava? Ah, già, Guccini" - ti ha imbrogliato, regalandoti , insieme a quelli della sua e della nostra generazione, un mondo "dove non c'è più niente da fare", senza speranze, verità, possibilità. E forse - assistendo ai facili successi quotidiani delle tante trionfanti e vuote "modelle senza umanità" - arriverai a maledire persino quegli infelici cromosomi di cui ora non ti importa nulla...

Ma no. So che non succederà.

Perchè è lì, arroccato in difesa, vive e fiorisce per ora nelle catacombe ma torna a farsi vedere sempre più di frequente nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, sui tetti delle Università e sulle gru dei cantieri, nei barconi dei migranti, nelle agenzie di lavoro interinale, sui palcoscenici dei teatri e davanti a Montecitorio. Lo trovi nella rete e rimbalza su twitter. Scava e rode come l'antica vecchia talpa. Ha molti nomi: lo puoi chiamare cambiamento, libertà, uguaglianza, lavoro, dignità, sapere, cultura, futuro...

E, ci ricorda Ivano Fossati, "se c'è una strada sotto il mare, prima o poi ci troverà. Se non c'è strada dentro il cuore degli altri, prima o poi si traccerà".

Noi abbiamo sempre tentato. Ora dipende anche da te, Renata. Dipende da tutti voi.

Lettera pubblicata anche su Varesenews, qui

Lettera a Varesenews: I "danni" di quella scuola che aiuta a pensare

Caro Direttore,

mi sono diplomato nel 1981. Maturità classica al "Cairoli" di Varese. 

Studente quantomeno "difficile" - anche se non disastroso - per cinque anni. "Simpatico, intelligente... ma che lazzarone!", era la litania dei miei insegnanti. Uno scavezzacollo: chi mi conosce ora stenta a crederci. 
Eppure io preferivo suonare la chitarra e, soprattutto, fare politica, tanta politica, quasi a tempo pieno. Erano gli ultimi anni di "Lotta Continua" (la mitica, angusta, sede di Via Speri della Chiesa 18). Poi, forse con più consapevolezza, fu la volta di "Democrazia Proletaria".

I miei maestri di quegli anni si chiamavano Bruno Mainetti, Ebe Comotti, Bruna Bianchi. E poi, ancora, la Prof.ssa Solenghi che - senza che neppure io lo sapessi - mi ha fatto amare la biologia. A tutti loro - e alla mia famiglia - devo molto, moltissimo di ciò che sono ora. Ma non è loro che, oggi, voglio ricordare e ringraziare.

Dalla prima elementare sono stato "esonerato" in Religione (allora non si decideva di "non avvalersi", ci si "esonerava"). Non ho ricevuto comunione né cresima (il battesimo sì, altrimenti gli "alti lai" dei nonni sarebbero giunti sino al cielo). Sono stato cresciuto come non credente. Anzi, proprio come "ateo", se con Erri De Luca vogliamo tracciare la profonda differenza filosofica tra le due impostazioni.

Eppure, arrivato al "Cairoli", inizio a sentir parlare di un sacerdote che insegnava Religione quasi fosse un ramo della Filosofia Teoretica, lungo un tortuoso ed affascinante percorso tra Leopardi e Dostoevskji, Descartes e Sartre, Socrate, Aristotele, Tommaso e lo stesso Marx. Filo conduttore, l'idea giussaniana di "senso religioso". Questo sacerdote si chiamava Fabio Baroncini, ed era considerato braccio destro di Giussani e uno tra i più profondi ideologi - non solo lombardi - di "Comunione e Liberazione".

Decisi allora - nonostante la perplessità di mio padre - di iniziare a frequentare le lezioni di religione: il problema religioso mi appariva allora infatti - e continua ad apparirmi, con Marx e con Bloch - un tema centrale per la costruzione di un'idea di uomo e per il nodo politico-filosofico della sua liberazione. Con Don Fabio - e, fuori dalla scuola, con un mio carissimo (e più religioso) compagno di classe - ho vissuto cinque anni di dialettica in opera, di argomentazioni e contro-esempi,  di vera e propria palestra mentale: finché, alle soglie della Maturità, ho potuto riconoscere che quelle lezioni avevano rappresentato, per me, un'ulteriore occasione - insieme alle lezioni di Bruna Bianchi - per "imparare a pensare".

Sono rimasto ateo, ma con un bagaglio di logica, consapevolezza e conoscenza (anche delle astuzie dialettiche del giussanesimo) che porto ancora nel cervello, e quasi nel DNA. E lo dissi a Don Fabio: "Mi hai insegnato a produrre e trovare gli argomenti, anche per controbattere alle tue idee". Mi è parso felice di questo. Preferiva l'intelligenza critica alla - molto diffusa - adesione cieca (spesso molto diffusa tra i suoi adepti) al suo straordinario fascino.

Ho conosciuto Don Fabio in una scuola pubblica: una scuola in cui ho avuto la possibilità di confrontarmi con idee altre da quelle respirate nella mia, sia pur splendida, famiglia. Questo confronto mi ha arricchito e cambiato profondamente.

Ora ci spiegano che è questo, proprio questo, il male della scuola pubblica, il male assoluto: che la scuola pubblica può essere un sistema aperto che svela al pensiero l'esistenza di un mondo ed un respiro altro, differente e più ampio di quello voluto ed imposto dal nucleo famigliare. Meglio scegliere le istituzioni educative in termini conformi, così da garantire la replicazione puntuale e regolare dello stesso DNA culturale.

Dimenticando che, per fortuna, il nuovo nasce proprio - in biologia, nella cultura, nella politica, nel mondo - dalla mutazione. Che il mondo preme, è , non può essere chiuso fuori dalla porta.

E che, per fortuna, la mutazione è sempre pronta ad emergere: prima o poi - come hanno dimostrato le giovani piazze di questi mesi - nuove farfalle compaiono sempre, per prendersi il futuro.

Lettera pubblicata su Varesenews, anche qui

A partire dai bambini

Ricostruire le città e i paesi a partire dai bambini. Perché - come recita lo straordinario programma del candidato Sindaco del PD a Malnate, Samuele Astuti - "se le cose vanno bene a loro, vanno bene a tutti".

Pare quasi la ridefinizione dell'imperativo categorico di Kant - che intendeva porsi come "idea regolativa" dell'agire, ovviamente anche sul piano politico-amministrativo - abbassando sul piano visuale (ma innalzando incredibilmente sul piano ideale) lo sguardo di prospettiva. Non più l'universalità della legge, ma il suo ridimensionamento all'infanzia: "Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare per mezzo della tua volontà una legge buona per tutti i bambini".

Quali bambini, però e anzitutto?  

Bersagli pubblicitari e mercantili, “nati per comprare” – dal titolo di uno splendido saggio di alcuni anni fa - spesso costruiti e modellati (raramente frequentati o conosciuti) secondo gli stereotipi di un immaginario (e di un utile) tutto adulto, che alterna - a seconda dell’angolo visuale - il mito dell’innocenza a quello delle baby gang, l’enfasi sulle mode alla “terribile semplificazione” del bambino visto esclusivamente come “futuro adulto”? O i bambini a cui regalare un po' di bamboleggiante panem et circenses natalizio, preferibilmente con la sponsorizzazione o il patrocinio fortemente visibile di questo o quel Centro Commerciale?

Eppure i Signori Bambini, direbbe Daniel Pennac, sono qui, nostri concittadini, così come sono ora, con la loro ricchezza e complessità, con la loro sostanziale compiutezza in divenire (non sembri un paradosso) che merita attenzione, considerazione e stima.

Bolle di sapone sensibili ad ogni alito di vento, fragili e rapidissime a spezzarsi al più piccolo turbamento, eppure al contempo dotate di una resistenza e solidità sorprendenti: il segreto della bolla di sapone - come quello dell'infanzia - va rintracciato nella sapiente consistenza e preparazione della sua materia, nella delicatezza (ma anche nella sicurezza) del gesto con cui l'animatore/artista (e, per stare in metafora, il genitore, l'insegnante, il mondo) consegna la sfera, ormai libera, all'aria. Pronta per un volo lieve ma solido, il più duraturo possibile.

Questo approccio all'infanzia muove, soprattutto, da un'idea seria di rispetto: rispetto dei tempi e ritmi della crescita - fisica, emotiva, intellettuale - ma anche della necessità di una sua costruzione, non svilita né avvilita al ribasso. Che riesca a coniugare leggerezza ed allegria con la consistenza del pensiero, lo svago con la cultura e l'educazione: fino a scoprire che queste apparenti antitesi sono, appunto, solo apparenti. Che l'allegria educa e che il pensiero ci alleggerisce l'animo: che solidità e lievità, insieme, sono le chiavi del nostro vivere nel mondo.

Una città che muova da queste premesse - quasi si trattasse di un sistema matematico, che costruisca i propri teoremi a partire da pochi assiomi fondativi - non può tuttavia che rovesciare, è bene che se ne abbia consapevolezza, il catalogo e l'ordine delle tradizionali, e spesso miopi, priorità politico-amministrative. Perché - al di là della forza evocativa e della nobiltà programmatica dello slogan - probabilmente non è vero che "se va bene per i bambini  va bene per tutti". Con le parole di Sandra Zampa (La Repubblica, 4 novembre 2010):

"In una città dove i bambini e gli adolescenti stanno bene, dove possono vivere sentendosi a casa propria, difficilmente non vivranno altrettanto bene gli adulti. Il loro benessere misura quello di noi 'grandi' ed è a partire dalle loro difficoltà, dal loro disagio e dalle loro sofferenze che potremmo misurare l'inadeguatezza della città che da adulti abbiamo costruito (...) Ogni euro speso per il benessere dei bambini e degli adolescenti è ben speso. Il benessere delle loro vite attraversa ogni pagina dell'agenda degli impegni di un'amministrazione. Dalla qualità dell'aria allo sport, dal tempo libero alla scuola e all'educazione, dai programmi di integrazione al verde, fino alla viabilità".

Occorre coraggio: occorre saper costruire, in tempi di "coperte corte", teoremi radicalmente diversi, costruiti sul primato - anche e soprattutto finanziario - della scuola e della cultura, delle biblioteche e dell'ambiente. Con lo stesso coraggio, credo, occorre anche ricostruire - a partire da qui - l'anima di una sinistra che non sempre ha mostrato una sensibilità particolarmente reattiva a questi temi, se non in termini di contrapposizione.

Ci riuscirà Malnate, ci riuscirà Astuti?

L'augurio - da un vecchio abitante del paese, negli anni '70 di un'infanzia ricca di prati e boschi e furiose partite a calcio - è davvero sentito. Anche per il ricordo di Luca Zecca - amico sensibile e colto che se n'è andato troppo presto - che sarebbe lì, in prima fila, a sperare e credere in un cambiamento possibile.

Taglio

Taglio,
sogghigno nel vedere lo sbaraglio
di attorucoli senza portafoglio
che forse arriveranno fino a luglio.

E taglio,
il Fondo, a fondo, mi appare assai meglio
persino Bondi lancia un alto raglio
e quasi gli si inumidisce il ciglio.


Ma taglio,
a quel sipario stinto ora mi appiglio,
butto nel cassonetto il grano e il loglio.
Ora mangiate: c'è rimasto il miglio.


Sì taglio,
tutte le notti ormai rimango sveglio
a tracciar croci sopra a questo foglio:
anche De Fusco sottopongo al vaglio.

E quindi taglio,
vorrebbe far teatro anche mio figlio,
lo guardo mentra dorme, ed io lo veglio.
Guardo la gola...

ed alla fine, taglio.