“È cosa ben triste, per quanti passano per questa grande città o
viaggiano per il nostro Paese, vedere le strade, sia in città, sia
fuori, e le porte delle capanne, affollate di donne che domandano
l’elemosina seguite da tre, quattro o sei bambini tutti vestiti di
stracci, e che importunano così i passanti. Queste madri, invece di
avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente da vivere,
sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad
elemosinare il pane per i loro infelici bambini, i quali, una volta
cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il loro
amato Paese natio per andarsene a combattere per il pretendente al trono
di Spagna, o per offrirsi in vendita ai Barbados” (J. Swift, 1729).
E’ l’incipit del celebre, provocatorio, saggetto di Jonathan Swift, Una modesta proposta.
Mi frulla per la testa da quando, sulle pagine di alcuni giornali
online, si è avviato il dibattito sulle future politiche culturali
dell’amministrazione comunale.
Chissà perché proprio questo brano?
Forse
perché, compiendo un semplice esercizio mentale, quelle torme di
mendicanti e quei figli vestiti di stracci ricordano sempre più gli
operatori culturali alle prese con la pubblica amministrazione?
Costretti – anziché a produrre arte e cultura (“guadagnarsi
onestamente da vivere”) – a girovagare freneticamente per assessorati,
uffici, tesorerie ad elemosinare qualche modesta regalìa pubblica,
scampoli di riconoscimento (o anche solo un certificato di “esistenza in
vita”), a rivendicare con il cappello teso un diritto. Anni fa, del
resto, ce l'ha ricordato anche lo sciagurato ministro Bondi (che del
resto è scomparso: sarà rimasto sepolto sotto qualche calcinaccio
pompeiano?) che siamo tutti accattoni... Ultim'ora: il tizio è
ricomparso! E (diomio!) pare che finisca nel PD...
Ecco: nelle pagine che seguono proverò anch’io a delineare “una modesta proposta” per un possibile ripensamento della cultura varesina.
Modesta:
senza riferimenti più o meno propagandistici ad ipotetiche quanto
inconsistenti “rivoluzioni culturali” e senza astratte petizioni di
principio prive di connessioni con la reale, e grave, situazione della
finanza pubblica; ma neppure, a contraltare, con lo spirito falsamente
“realista” di chi vede nei continui tagli alla cultura una sorta di
legge di natura, una forza di attrazione gravitazionale che ci spinge
sempre più verso il basso.
Proposta: mi interessa poco, in questa sede, muovere considerazioni critiche
(che ho già avuto, a più riprese, occasione di avanzare e rendere
pubbliche) sulle politiche culturali che hanno caratterizzato la nostra
città nel corso dell’ultimo ventennio. Mi interessa molto di più,
invece, tentare di “buttar lì” qualche spunto costruttivo, nei limiti
del possibile: sebbene sia naturale, ed evidente, che qualsiasi
considerazione in positivo muova dall’implicita considerazione di un negativo, di un’assenza
o di un’insufficienza. E’ dunque ovvio – per la mia storia, per le mie
passioni politiche e culturali e per le mie speranze – che quanto scrivo
sia indirizzato in primo luogo alle forze politiche che, sulla carta, rappresentano un possibile cambiamento, un’altra cultura possibile,
un possibile nuovo corso. Sempre nell’ipotesi fiduciosa (ma troppo,
troppo spesso smentita dai fatti) che, su quella carta, i programmi non
vengano scritti con l’inchiostro simpatico…
Quel che credo interessante, però, è che le proposte che avanzo non sono, in sé, proposte “di sinistra”: il livello a cui si collocano – fatte salve alcune premesse fondative, di cui dirò tra poco – è infatti quello delle regole e della trasparenza, della qualificazione della spesa e della sua certezza, della progettazione culturale d’orizzonte e della creazione di sistemi stabili di sussidiarietà
tra pubblico e terzo settore. Che poi la trasparenza procedurale
rappresenti, oggi come oggi, un cambiamento straordinario è purtroppo
ben altro paio di maniche. In sé, quindi, tali proposte non sono rivolte
ad alcun partito e forse neppure ad alcuna “parte”.
1. Due premesse “di valore”
Per
sgombrare il campo, nei paragrafi che seguiranno, dalla necessità di
continui incisi, distinguo, specificazioni mi pare opportuno precisare
da subito due premesse – queste sì politiche, quando non filosofiche e in qualsiasi caso decisamente (ed orgogliosamente) unilaterali
– che rappresentano l’implicito sostrato teorico di tutto il
ragionamento. Parranno forse banalità, ed infatti Gregory Bateson le
avrebbe probabilmente chiamate ogni scolaretto sa che…
a. La cultura non è assimilabile all’intrattenimento o al marketing territoriale.
La
cultura di una città è come un’atmosfera, un ambiente, una vasca nella
quale siamo permanentemente immersi e che può – o meno – essere densa di
una pluralità di potenzialità di accesso ad occasioni di arricchimento.
E’ qualcosa di molto simile all’istruzione, un’istanza formativa e pedagogica, un diritto civile ed un bene comune, che possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti,
essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia,
della poesia, dell'arte contemporanea o del teatro sperimentale,
mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso
molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne
fanno parte.
Un’idea di “cultura” che contiene in sé, anche nel suo etimo, l'idea di coltivazione, di semina in vista di un raccolto futuro, di crescita:
lungo una visione multidimensionale dell’uomo e del cittadino secondo
cui un ambiente caratterizzato dalle molte possibilità di formazione,
dalle notevoli e diversificate risorse acculturanti, dalla pluralità
degli stimoli cognitivi crea personalità e cittadini intelligenti,
flessibili, in grado di operare nella contemporaneità con un repertorio
di strumenti comportamentali e conoscitivi che incide drasticamente
sulla qualità della vita ma anche sul PIL, sui tassi occupazionali,
sull’imprenditorialità diffusa, sulla crescita complessiva di una
comunità e della sua civiltà e fisionomia (per esempio lungo l'idea di capability
della filosofia economica di Amartya Sen). Non c’è nulla di nuovo, in
realtà. E’ la vecchia e sempre attuale convinzione di Dario Fo secondo
cui “L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000; per questo è lui il
padrone”.
Da questo punto di vista, l’idea di politica pubblica per la cultura implica la continua produzione ed il sostegno di valori essenzialmente formativi che, certo, possono intrattenere e, certo, possono essere attrattivi per il turismo: ma che vengono qualificati solo attraverso la necessaria
inversione della triste relazione finalistica oggi dominante, secondo
la quale le iniziative culturali vengono organizzate per intrattenere, per riempire il tempo libero o per attrarre i turisti. La cultura certamente intrattiene (come sostiene Mario Vargas Llosa, a volte anche faticosamente, in modo impegnativo) ma, altrettanto certamente, non è possibile sostenere, sic et simpliciter, il contrario. Questo, incidentalmente, dovrebbe a mio avviso implicare un drastico ridimensionamento delle funzioni e delle attività del cosiddetto assessorato al marketing territoriale:
troppo spesso sovrapposto e concorrente, in una frenetica produzione di
eventi ad alta visibilità (e spesso non corrispondente qualità),
dell'assessorato alla cultura. Una totale assurdità sul piano economico,
organizzativo, funzionale e in ultima analisi anche culturale.
La produzione culturale è in realtà un fine in sé, priva di qualsiasi vocazione ancillare; e in quest’ottica l’idea della cultura come servizio implica esclusivamente la produzione, proliferazione e diffusione di valori formativi e la tensione alla massima estensione possibile al godimento di quei valori.
b. Non esiste alcuna proporzionalità diretta o inversa tra la qualità del prodotto culturale ed il suo consumo
Ma
tra servizio e valore si innesta una dicotomia tutt’altro che banale o
di semplice soluzione: tanto più viene enfatizzata l’idea di servizio,
infatti, quanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare
– misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio
stesso. Come se, per fare un esempio, l’importanza della sanità pubblica
fosse funzione semplice e misurabile della quantità effettiva di braccia ingessate e non, al contrario, della necessaria possibilità di curarsi. Dalla televisione all’editoria al teatro, così, la cultura di qualità è stata declinata lungo la prospettiva della quantità. E l’estensione massima della fruizione del prodotto culturale è stata tradotta nel principio del “gradimento”, dell'audience, secondo cui se la cultura non è goduta, se il suo valore d’uso non viene consumato è forse meglio, allora, ridurre le aspettative. Se servizio deve essere, allora deve essere la risposta ad una domanda attuale, la soddisfazione di quella domanda, il modellare qualsiasi offerta su quella domanda. Il servizio diviene valore in sé, determinando una sostanziale mortificazione dell’istanza culturale ma soprattutto dell’idea fondamentale di formazione del pubblico,
in una semplificatoria visione del mondo a matrice neo-liberista, in
base alla quale tanto più senso possiede un servizio quanto più questo,
nel presente viene consumato, usato, in una filosofia che declina sempre più il cittadino nel suo ruolo esclusivo di utente e consumatore. E' il principio sulla base del quale proliferano i "Grandi Fratelli" e le "Isole dei famosi".
Intendiamoci:
dall'estremismo giovanile dei miei primi anni di lavoro in campo
culturale molta acqua è passata sotto i ponti, ed ora non credo più
nella simmetria inversa tra notorietà e qualità. Non vale in entrambi i sensi: non è detto (quasi mai) che l'underground
implichi una particolare qualità, così come non è vero che la coda al
botteghino (e quindi la risposta commerciale) significhi che il prodotto
culturale è scadente. Ovviamente, e forse più radicalmente, non vale però neppure il contrario, ed è fondamentale che il pubblico amministratore ne sia consapevole. Quel che differenzia i due approcci alla politica culturale non è infatti una sorta di inconciliabile fondamentalismo che divarica irrimediabilmente le "filosofie", quanto piuttosto il processo valutativo e decisionale ed il differente primato che viene attribuito alla scelta di qualità rispetto alla risposta commerciale.
Da
cui la necessità di una riflessione, spesso da sinistra rifuggita con
qualche imbarazzo, sull’antica querelle della dicotomia tra una cultura “alta”, che si vorrebbe strutturalmente élitaria, borghese, oligarchica ed una cultura popolare che si vorrebbe, all’opposto, “bassa”,
di massa, a largo consumo. Shakespeare contro I Legnanesi, Kieslowski
contro Vanzina. La mia persuasione, e lo confesso ormai senza alcun
imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione
progressista e di sinistra, è che il luogo della politica culturale
pubblica è il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski. Che la ratio del Welfare
in campo culturale sia la promozione ed il sostegno della cultura
“alta” e delle politiche organizzative e formative volte alla possibilità di rendere questa cultura sempre più tendenzialmente diffusa e popolare.
Per le ragioni già sostenute ma, ancor più incisivamente, perché – in
una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior
valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo,
maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior
disequilibrio di mercato. Adottando la favola della volpe e l’uva,
politica pubblica per la cultura significa operare per alzare la statura
della volpe, non abbassare sempre più il pergolato.
Nell'ottica
del primato della qualità e della scelta d'arte, la dimensione del
servizio acquista dunque progressivamente la fisionomia di un’idea regolativa, i tratti di definizione di un diritto di accesso alla cultura di qualità. Non la definizione di un’attualità ma di una potenzialità. Del diritto comune al godimento di un valore.
2. Un’idea di politica culturale
Poste
queste due lunghe ma necessarie premesse – che definiscono una
filosofia possibile dell’approccio pubblico (di qualsiasi parte) alla
cultura – si tratta ora di intendersi sul concetto di “politica
culturale”. Credo infatti che sia rintracciabile proprio in questo
nodo e nella sua declinazione pratica (ancor prima e ancor più che
nella drammatica questione delle scarse risorse) la lacuna più
significativa che ha caratterizzato la scena varesina sostanzialmente
dal terremoto tangentopoli ad oggi.
Il termine mi pare sostanzialmente indicare una complessiva visione strategica, pluriennale e d’orizzonte, del possibile sviluppo e della vita culturale di una città; una capacità globale di leggerne, interpretarne e monitorarne costantemente i bisogni; una conoscenza diretta ed approfondita della qualità espressa dai suoi attori culturali e dal pubblico servizio che, sia pure in una dimensione privata, di fatto tali attori culturali assolvono; un’azione di sostegno a queste realtà – conseguente a tutto questo e compatibile con le risorse – che ne prefiguri una tendenziale stabilizzazione nel tempo fondata su un serio principio di sussidiarietà. Serio e non parassitario,
come a tratti pare di scorgere al contrario nell’enfasi con cui, sempre
più spesso, la pubblica amministrazione elogia la nobile dimensione del
volontariato, letta per lo più in chiave di esternalizzazione e supplenza a costo zero per l’erogazione di servizi di competenza dello stato o delle amministrazioni locali. Tutto questo, naturalmente, non esclude la diretta gestione ed attività pubblica di
servizi inespressi dall’azione privata o per i quali si valuti
preferibile (sul piano qualitativo, economico, organizzativo,
gestionale) un’azione pubblica priva di mediazioni (penso per esempio,
ovviamente ed in primo luogo, alle biblioteche o ai musei, ma non solo).
Quanto detto – vorrei fosse molto chiaro – muove da tre assunti fondamentali e solo apparentemente contrastanti:
(a)
Per un verso, dal principio essenziale (che risale sostanzialmente alla
seconda metà degli anni ’40, a Keynes e alla fondazione dell’Arts
Council britannico) dell’autonomia e terzietà della cultura rispetto all’universo della politica: un modello che esclude, in termini di principio,
censure, chiusure ed il ricorso più o meno implicito a criteri
extraculturali (o “di appartenenza”) nella valutazione pubblica della
qualità e del merito delle istituzioni e dei progetti culturali;
(b) Dall’altro lato, e contemporaneamente, dalla necessità di questa valutazione stessa, che giocoforza si deve tradurre in qualche forma di scelta e selezione. Una necessità legata ad una semplice, e credo condivisibile, considerazione: l’eccessiva frammentazione della spesa in una miriade di piccoli e piccolissimi contributi,
spesso predeterminati dall’amministrazione sulla base di residue
disponibilità di cassa e pressoché del tutto privi di connessione con
dati di natura quantitativa e qualitativa, mortifica i beneficiari, sostanzialmente scontenta tutti o quasi, precarizza in forma cronica qualsiasi attività, non ne garantisce la continuità e, in ultima analisi, dequalifica la spesa stessa, rendendola sostanzialmente del tutto irrazionale. Questa funzione è, io credo, un diritto ed un dovere della politica culturale.
(c)
Il terzo principio (una sorta di sintesi hegeliana?) interviene a
risolvere la contraddizione, evidente, che intercorre tra i primi due.
Si tratta del principio dell’interposta persona (o Arm’s lenght principle) tra potere politico e realtà culturali: un principio che traduce l’idea di terzietà nell’istituzione di un organismo intermedio – a carattere consultivo (ma il cui parere, sia pur non vincolante, sia tenuto in rilevante considerazione) – che sia costituito da un’ampia, democratica e composita rappresentanza dell’universo culturale cittadino
(scuola, università, società civile, fondazioni bancarie, singoli
cittadini di comprovata autorevolezza) a cui venga affidato il compito
di esprimersi in ordine al sostegno da riconoscere a progetti e soggetti
della cultura cittadina.[1]
Tale organismo – giocoforza di nomina politica, ma i cui criteri di costruzione (che prevedano per esempio la rotazione periodica dei suoi componenti) e le cui forme di rappresentanza dovrebbero riflettere quantomeno una composizione plurale e ad ampio spettro – dovrebbe essere delegato ad operare compatibilmente con i vincoli di bilancio ma anche in una prospettiva strategica di sviluppo e stabilità del sistema culturale.
Le riunioni e le valutazioni di tale organismo, infine, sono pubbliche e pubblicamente motivate:
per garantire la massima trasparenza dei criteri di giudizio
qualitativi e quantitativi adottati e al contempo (vista la sua funzione
esclusivamente consultiva) per evidenziare le consonanze o le
dissonanze tra i pareri espressi in questa sede e le relative
deliberazioni politiche.
3. La cultura cittadina tra “soggetti” e “progetti”
In
quanto precede si è fatto riferimento a più riprese ad alcune idee
fondative, che ora vorrei sviluppare un po’ più dettagliatamente: si
tratta delle idee di orizzonte strategico della politica culturale, di sviluppo e di stabilizzazione.
Attualmente
– e non si tratta certo di una specificità varesina – il modello del
sostegno alle attività culturali muove lungo l’asse progetto/valutazione/[eventuale] finanziamento:
gli attori culturali propongono, annualmente, dei progetti di attività
che vengono sottoposti ad una valutazione
politico-culturale-amministrativa che, in caso positivo, si conclude con
la proposta ed approvazione in Giunta comunale. Testualmente (dagli
obiettivi dell’Assessorato alla Cultura illustrati nei bilanci di
previsione), viene realizzata una “collaborazione organizzativa,
finanziaria e per alcuni versi anche scientifica, con altri soggetti,
pubblici e privati e con l'associazionismo culturale, attuando insieme
nuove iniziative o supportando quelle già organizzate, attraverso modalità definite di volta in volta”.
Si
tratta di un modello che – almeno sulla carta – ha indiscutibilmente
alcuni meriti: evita la creazione di rendite di posizione (o, come
dicono alcuni, “caste”) cristallizzate; conserva la flessibilità della
valutazione delle progettualità nel merito, consentendone una
considerazione più puntuale; mantiene il controllo della spesa nel
quadro dei bilanci comunali annuali senza ipotecare il futuro.
Al
di là, però, della sostanziale opacità, già denunciata, relativa a
questo iter di valutazione[2], quel che preme rilevare qui sono invece i
molti inconvenienti – credo più pesanti dei meriti – che questa prassi
necessariamente implica e determina. Quel che pare mancare in questo
modello, infatti, è la capacità di “leggere” la città e la sua politica
culturale non solo attraverso la considerazione “eventuale” (non è un
caso che si tratti dell’aggettivo derivato dal termine “eventi”) delle
proposte volta per volta recepite ma dalla considerazione dei suoi soggetti culturali stabili, la cui attività è ricorrente, storicizzata e caratterizzata dalla continuità, la cui progettualità non si esaurisce in singoli “eventi” o “cicli di eventi” ma in una multiforme e poliedrica attività che disegna l’habitat culturale della città in forma permanente:
quegli organismi per i quali non è possibile seriamente “frammentare”
la propria progettualità complessiva in sotto-segmenti perché quella
progettualità complessiva e d’orizzonte ne definisce la fisionomia e la
soggettività e ne descrive la globale funzione pubblica. La
città è, cioè, caratterizzata dall’attività ricorrente e “attesa” di
alcuni soggetti (ma di fatto anche di alcuni “progetti”) la cui
reiterazione da alcuni anni identifica di fatto (pur senza esaurirla) la
cultura cittadina: penso – senza completezza – al Liceo Musicale o al Teatro Apollonio, all’attività complessiva di Filmstudio90 e del Teatro Nuovo o alla Stagione Musicale Comunale, al Premio Chiara o al Teatro Santuccio, a Cortisonici e all’intera stagione estiva dei Festival (Solevoci, Gospel, Black&Blue…), senza dimenticare l’importantissimo Tra Sacro e Sacro Monte.
Li
conosciamo per nome, ne conosciamo più o meno il periodo di
svolgimento, le caratteristiche culturali, l’identità, le vocazioni: non si tratta più (o non solo) di progetti, ma di veri e propri soggetti – o addirittura istituzioni - della cultura cittadina.
Ora: io credo che una politica culturale lungimirante e d’orizzonte debba essere in grado, con coraggio, di individuare, scegliere, valorizzare e de-precarizzare i propri soggetti culturali stabili, includendoli nel quadro di prospettive di sostegno almeno triennali, che consentano loro (sul piano economico e organizzativo ma anche, banalmente, sul piano psicologico) percorsi di sviluppo di media-lunga durata, itinerari culturali pluriennali, visioni strategiche e di sistema.
E’ questa una scelta che ha compiuto da ormai quasi trent’anni, per esempio, il Comune di Milano, con lo straordinario sistema delle convenzioni teatrali: un sistema che – senza abdicare ad una sacrosanta funzione di controllo su griglie di valutazione quantitative e qualitative (ma senza entrare mai,
al contempo, nel merito delle scelte artistiche di ciascun teatro) ha,
anche in questi difficilissimi tempi e anche durante le amministrazioni
di centro-destra, salvaguardato su base triennale la conservazione di un modello di pubblico servizio, conferendo qualche elemento di certezza non-congiunturale ai suoi teatri, soprattutto sottraendo
in buona misura le progettualità di ciascuno alla discrezionalità della
valutazione annuale e alla conseguente, inevitabile, incertezza e
precarietà.
Tutto questo non esclude,
ovviamente, la valutazione ed il finanziamento di singoli progetti
proposti da qualsiasi altro attore culturale: ma entro un quadro
dialettico, in cui la fisionomia della vita culturale cittadina si
compone, in modo articolato, di “soggetti” al fianco di
“progetti”, di “sistemi” al fianco di “eventi”, di appuntamenti
ricorrenti affiancati da una ricca biodiversità culturale.
4. Verso un sistema culturale
Quel che credo emerga da quanto precede è una visione sottrattiva del ruolo dell’Ente Pubblico in campo culturale. L’assessorato
alla cultura, in breve, non è, non può essere e non deve essere la
“direzione artistica” di una città né un’organizzazione di eventi.
L’assessorato alla cultura dovrebbe invece essere, a mio avviso, il luogo della progettazione, coordinamento e regolazione di sistemi culturali, giocati sull’inclusione e sulla valorizzazione piena delle funzioni e delle qualità espresse dalla società civile; il luogo in cui vengano promosse e stimolate – e non solo astrattamente “caldeggiate” – pratiche orizzontali di aggregazione, processi co-organizzativi che oltrepassino nella pratica la dimensione degli steccati concorrenziali tra operatori culturali. Favorire concretamente progettualità comuni, spazi di cooperazione, modelli stabili di coordinamento ma al contempo favorire e promuovere le differenze, riconoscendo ruoli, vocazioni, funzioni alternative espresse dal territorio.[3]
In
questo senso, credo che si possa dire che un assessorato alla cultura
ha sostanzialmente (per quanto attiene, ovviamente, gli ambiti indiretti
di intervento) un ruolo di meta-progettazione, di indirizzo, di agenzia di facilitazione. Un ruolo, cioè, di natura fortemente strategica, amministrativa ed organizzativa.
Un
ruolo in cui, paradossalmente, la figura dell’assessore è tanto più
politicamente significativa quanto più si sottrae dalle luci della
ribalta dell’iniziativa autonoma per farsi essenzialmente costante portavoce
e difensore (anche, e soprattutto, all’interno della propria
maggioranza) di un principio di dignità, priorità e sostenibilità
dell’investimento per la cultura come elemento essenziale – e non accessorio o residuale - della qualità della vita di una città.[4]
Avrei ancora molto da dire: sul teatro, in particolare. Ma, per ora, mi pare che possa decisamente bastare.
--------------------
[1]
Si tratta di quella che potremmo definire “forma debole” del principio:
in realtà, per esempio nel modello anglosassone, è l’organismo
intermedio (l’Arts Council, appunto) a ricevere direttamente dallo Stato
i contributi destinati ad essere successivamente redistribuiti a
vantaggio degli attori culturali sulla base di criteri normativi ed operativi stabiliti dallo Stato stesso. Stato che, tuttavia, non interviene minimamente nella fase di selezione, “limitandosi”, del tutto legittimamente, ad una valutazione annuale dei risultati conseguiti complessivamente dall’attività erogativa (e, nel caso specifico, di fundraising) dell’Arts Council.
[2] Si tratta di una sorta di black box:
negli uffici dell’assessorato “entrano” proposte di progetti, solo
alcune delle quali “escono” e finiscono in giunta, accompagnate o meno
da ipotesi di sostegno finanziario la cui connessione oggettiva con i
progetti stessi e con la loro consistenza economica e qualitativa rimane
quantomeno dubbia e, in ogni caso, molto aleatoria.
[3] Da questo punto di vista, credo che l’esperienza di Con>vergenze (www.convergenzevarese.it) possa rappresentare un piccolo esempio – nato dal basso
– di un processo che, se promosso, ampliato e sostenuto dalla pubblica
amministrazione, avrebbe probabilmente potuto godere di contributi ancor
più significativi e certamente di una dimensione maggiormente
istituzionale. Un piccolo esempio: perché Con>vergenze è un soggetto collettivo,
che ha saputo costruire concretamente una dimensione di condivisione
(artistica, economica ed organizzativa), a dispetto dell’antica litania
(di origine politica) in base alla quale ciascuno di noi non faceva
altro che “coltivare il proprio orticello” e che, proprio per questo, la
città non riusciva a fare un salto di qualità. Ce l’hanno detto per
anni e anni - quasi con un certo compiacimento – mascherando dietro
l’invito palese a “fare rete” il fatto, banale, che un “vulgo disperso” e
diviso è molto più conveniente e conforme ad una prassi di
riconoscimenti (non solo economici) fondata sulla sostanziale
discrezionalità del palazzo, sulle valutazioni di conformità
agli orientamenti di parte, sulla totale “incertezza del diritto”. Ora
la rete l’abbiamo fatta, e questo a molti non fa affatto piacere. Per
una riflessione complessiva su Con>vergenze e su un suo possibile
significato politico: http://www.arciragtime.it/sortirne-insieme-convergenze-suo-possibile-significato-politico/
[4]
Mi piace qui ricordare, a titolo di esempio, che lo storico assessore
milanese alla cultura della Giunta Albertini, Salvatore Carrubba – un
economista di formazione fortemente neoliberista, quindi
difficilmente accusabile di simpatie assistenzialistiche – lungo tutto
il corso del proprio mandato sostenne come un samurai giapponese una
strenua e continua battaglia con la giunta di cui faceva parte per la
tutela e salvaguardia della dotazione di bilancio conferita alla
cultura, per la sua qualificazione, per la conservazione dei sistemi di
eccellenza (primo tra tutti quello delle convenzioni teatrali) senza i
quali la vita culturale milanese sarebbe, oggi, molto molto più povera.
Anche
per quest’ultima ragione, nel quadro di un’idea di politica culturale
come progettazione di sistemi culturali (più o meno formalizzati), l’assessorato
alla cultura deve infine caratterizzarsi come luogo privilegiato per la
ricerca ed il reperimento di ulteriori risorse da investire nelle
attività: da una sistematica azione di raccordo con l’universo
dell’impresa (che faccia leva, per esempio, sul principio della
responsabilità sociale), alla partecipazione a bandi pubblici e privati;
dalla co- progettazione con Regione e Provincia all’attivazione di
campagne collettive di crowdfunding.