martedì 14 aprile 2015

Masterplan e teatro



Un'analisi dello "studio di fattibilità economico-finanziaria" del nuovo teatro di Varese(brani testuali rientrati e in colore).
Durante la lettura, per capire davvero, si consiglia di effettuare un semplice esercizio mentale: sostituite alla parola "teatro" la parola "scuola".

Costruiscono un teatro da 24,5 mln e 1500 posti. Un investimento che fa quasi interamente leva sulle risorse pubbliche:
Le stime dell’analisi di fattibiltà individuano in circa €24,5 milioni l’ammontare dell’investimento necessario per realizzare un nuovo teatro di dimensioni medio-grandi secondo gli standard del settore (circa 1500 posti a sedere); nei costi sono comprese le strutture e gli arredi interni. Il grosso di tale investimento è previsto a carico del settore pubblico (€17.580.000)
Poi ne chiedono solo 3 ad un privato e lo chiamano "project financing":
Il nuovo teatro è un’importante opera di interesse collettivo una delle più ambiziose operazioni culturali della storia della città su cui converge una rilevante dote di fondi pubblici nella fase di investimento. Per realizzare questa opera si prevede di fare ricorso al project financing: l’investitore privato diventa centrale soprattutto nella fase di gestione del teatro, con una conseguente sua assunzione di gran parte dei rischi legati all’attività operativa.
In uno schema di project financing il teatro può essere considerato una “opera tiepida” a condizione che ci sia un elevato contributo pubblico nella fase di costruzione. La possibilità di attirare operatori privati fa quindi leva su un rilevante investimento iniziale nella costruzione da parte del settore pubblico. Su un costo di costruzione stimato in €24 milioni, l’apporto dei privati nella società di progetto dello schema di project financing viene limitato a circa €3 milioni, il 12,5% del totale.
Il resto entra dal "libro dei sogni" delle vendite e degli oneri di urbanizzazione di via Ravasi.
Altri €4,1 milioni confluiranno verso il progetto del teatro come risorse pubbliche generate dallo sviluppo immobiliare di via Ravasi.
Un “libro dei sogni” che ruota essenzialmente (anche se lo negano) su una sottovalutazione del contesto di crisi dell’edilizia, su una sopravvalutazione del valore dell’area al mq e, infine, su una evidente perimetrazione socio-economica dei potenziali acquirenti alle fasce sociali medio-alte:
Le caratteristiche fisiche e localizzative del comparto permettono la realizzazione di residenze di elevata qualità. I prezzi considerati tengono conto di questo ma anche della difficoltà in cui versa il settore immobiliare: i valori prescelti prefigurano un miglioramento della situazione di mercato da qui a 23 anni e rispecchiano la possibilità che l’intervento assuma forme innovative sotto il profilo energetico e della domotica. Grazie alla qualità e alla localizzazione dell’intervento l’offerta delle nuove residenze si rivolge ad un ampio pubblico di potenziali acquirenti in grado di sostenere i prezzi di mercato indicati. In questo bacino esistono segmenti di popolazione che in prospettiva possono diventare importanti per una città come Varese: dal pubblico degli “over 65” con una capacità di reddito e patrimoniale medio alta

In relazione ai prezzi di vendita del terziario ci siamo mantenuti sui livelli massimi consentiti dal mercato, una ipotesi che ci sentiamo di mantenere data la “qualità del luogo” che scaturirà dal processo di riqualificazione. Il prezzo di vendita del commerciale rispecchia l’ipotesi la capacità di spesa di una parte dei flussi di persone che vivranno stabilmente nell’area, o che ci passeranno per motivi di svago o di lavoro, possa conciliarsi con un commercio di vicinato di qualità in grado di sostenere canoni di affitto (o prezzi di acquisto dell’immobile) da centro città.
Ma non solo: via Ravasi potrebbe interessare anche un costruttore che operi “in tandem” con il privato che si occuperà delle gestione privata (ma le due figure potrebbero coincidere):
L’ultimo passaggio ha riguardato una indagine sulla possibilità che operatori del settore della gestione dei teatri possano partecipare a bandi di project financing (con procedura a gara unica secondo art.153, c3, d.lgs.163/06) per rilevare la gestione del teatro, assumendosi quindi una parte rilevante dei rischi operativi, ma entrando con una quota, da mantenere relativamente bassa, anche nell’investimento iniziale. Inoltre il loro ingresso in una società di progetto potrebbe avvenire in tandem con un operatore immobiliare che non si limiterebbe a costruire il teatro: il bando di gara può infatti prevedere che a tale operatore possa essere concesso anche lo sviluppo di un’area con capacità edificatoria nello stesso comparto in cui sorge il teatro. Tale area, come già anticipato, è stata identificata con il comparto di via Ravasi.
Fatto tutto questo, al privato regalano le chiavi del giocattolino, molto probabilmente sopravvalutandone le potenzialità economiche:  
La gestione privata del teatro è parametrata su un conto economico con entrate a partire da circa €1 milione nei primi anni di operatività ed in crescita nel corso dei 30 anni di gestione (costi operativi a partire da circa €500.000). Ci aspettiamo che dimensioni e caratteristiche del nuovo teatro possano consentire al gestore performance con tassi crescita delle entrate migliori di quelli stimati nel modello (possono aumentare i costi di gestione ma aumentano più che proporzionalmente le entrate). In conclusione un teatro delle dimensioni indicate potrebbe sfruttare al meglio le “tendenze di mercato” del settore delle performing art e in particolare la redditività dei grandi spettacoli dal vivo.
E, forse proprio per questo, continueranno a riconoscergli 230.000 euro all'anno.
Il fatto che il teatro attuale in regime di gestione privata abbia potuto continuare ad operare dipende certamente dai contributi comunali erogati ogni anno (nella misura di circa € 230.000 all’anno negli ultimi anni). Ma è anche un segnale che, con la possibilità di incrementare le entrate, e soprattutto la redditività dell’attività del teatro, un operatore specializzato nel settore potrebbe trovare una convenienza economica a rilevare la gestione del nuovo stabile

Si stima che il teatro possa raggiungere una sostenibilità economica in fase di gestione in cui il contributo pubblico (da parte del Comune di Varese) rimanga fermo negli anni a quota €230.000 e arrivi a rappresentare una quota secondaria delle sue entrate (il 25/30% dei ricavi a scendere negli anni).
E, a fronte di questo, la “macchina” viene “messa a disposizione della gestione privata” per farne, sostanzialmente, quel che vuole
Verrebbe realizzata e messa a disposizione della gestione privata una “macchina” che, per dimensioni e qualità, offre l’opportunità di catturare una fetta importante delle entrate da biglietteria attraverso una percentuale degli introiti dagli spettacoli. La dimensione del teatro favorisce infatti accordi tra gestore teatro e gestore spettacoli (che possono anche coincidere) basati sul revenue sharing, più favorevoli rispetto ai ricavi generati da forfait. 
 …dal momento che, in campo culturale, la “mano invisibile” ha un solo nome: audience (variamente declinato come “mercato”, “botteghino”, “chiamata”, “cassetta”…)
Questa opportunità diventa importante per i grandi spettacoli in grado di “fare esaurito” nelle giornate di programmazione. L’obiettivo inserito nel modello è di circa 25 giornate di esaurito all’anno. Gli spettacoli “costosi” vengono in tal modo concentrati in meno giorni ottenendo una migliore gestione economica rispetto ad un teatro con meno posti (che richiederebbe più giornate di esaurito per ottenere un analogo importo di entrate da vendita biglietti). In conclusione un teatro delle dimensioni indicate potrebbe sfruttare al meglio le “tendenze di mercato” del settore delle performing art e in particolare la redditività dei grandi spettacoli dal vivo.
E perché necessariamente un privato? Per il consueto luogo comune della “probabile migliore performance di gestione” ma, più significativamente, anche per il “trasferimento del rischio domanda” rispetto alla gestione pubblica:
In generale il ricorso al project financing permetterebbe di affidare ai privati la costruzione (con un trasferimento a loro carico dei rischi di sviluppo) e la gestione del teatro (con una probabile migliore performance di gestione ed un trasferimento del rischio domanda rispetto allo scenario, tipico di molti teatri comunali in Italia, di una gestione pubblica della fase operativa)
Verso la fine della parte relativa al teatro, lo studio affronta la possibilità di forme di fund raising, naturalmente sopravvalutate
A nostro avviso è possibile generare risorse addizionali per la realizzazione del nuovo teatro rispetto a quelle previste nell’AdP. Un fundraising mirato tra esponenti del mondo imprenditoriale delle professioni di Varese e provincia può rappresentare un punto di partenza e può, se avviato per tempo, generare fondi extra dell’ordine di €1,5 milioni
Aggiungendo che
Sarebbe opportuno che questi attori del mondo privato si riunissero in un gruppo unico, sotto forma per esempio di associazione o fondazione, in cui far convergere i propri fondi.
Senza escludere il crowdfunding
Per quel che riguarda una eventuale operazione di crowdfunding o azionariato popolare, essa potrebbe essere stimolata dalle istituzioni, ma per definizione dovrebbe nascere da una spinta dal basso. Un progetto capace di trasmettere emozioni e visione potrebbe favorire un processo di questo tipo. Se questa raccolta fondi “diffusa” partisse e producesse un certo ammontare di risorse, si potrebbe pensare di offrire a rappresentanti di questo gruppo di azionariato “cittadino” una voce all’interno della società di progetto e/o all’interno dell’organizzazione responsabile dell’attività operativa del teatro. Rimane ovviamente da definire sia il tipo di influenza che questo gruppo potrebbe esercitare.
Finora, praticamente, a proposito di quest’ultimo punto hanno parlato solo, in sostanza e con grande originalità, di una ottocentesca “vendita delle poltrone”, cosicché privati possano essere sia il palco sia la platea.

E infine  con un inspiegabile sussulto freudiano di rammemorazione rispetto al “senso” del teatro, l’estensore dello studio di fattibilità si lascia scappare, “buttandolo lì”:
Il ruolo di una associazione o fondazione che controlla le risorse da fundraising non dovrebbe essere quello di partecipare agli utili di gestione del teatro, quanto piuttosto quello di esprimere una visione sul ruolo e la mission di una istituzione culturale che di fatto appartiene alla città.
Un riferimento alla mission e alla “visione” che ci sconcerta non poco, dopo quanto illustrato. Uno sconcerto che si attenua subito, tuttavia, nel renderci conto che questa possibilità di espressione ed indirizzo è – ancora una volta – privata e riservata, sic et simpliciter, a chi “caccia i soldi”.

Fin qui lo "studio".

Quindi: un privato costruisce; un privato gestisce; dei privati – se pagano qualcosa – indirizzano le linee culturali del teatro; dei privati – se pagano – possono comprarsi le poltroncine.

Nemmeno una parola, in tutto questo, sul senso culturale dell'operazione. Tutti concentrati sul contenitore, non si è minimamente affrontato il nodo dei contenuti.

Eppure i contenuti non hanno a che vedere solo con l'adeguatezza dell'edificio: hanno a che fare soprattutto con un'idea di teatro che oltrepassa la dimensione - francamente un po' elementare - del servizio per  porsi alcuni problemi di fondo.

Il teatro è essenzialmente cultura, non (o non solo) intrattenimento e gestione del tempo libero. E' sì servizio, ma è pubblico servizio: finalizzato soprattutto alla crescita civile e culturale dei cittadini, alla loro promozione, ad un'istanza anche complessivamente formativa. Come, per fare un esempio comprensibile a tutti, dovrebbe essere la RAI (la cui scadente qualità, tutta giocata sull'audience, è al contrario davanti agli occhi di tutti).

Il teatro é, per esempio, la grande tradizione della Prosa d'autore, che si è progressivamente "asciugata" dalle  stagioni (o si è convertita nella forma del teatro "leggero"), a causa di una scelta originaria: quella di ridurre sempre più lo sguardo pubblico sulle scelte di cartellone per delegare in toto al gestore privato (che, ovviamente e legittimamente, aspira primariamente agli incassi) qualsiasi linea di programmazione.

Vogliamo che Varese continui ad essere sostanzialmente l'unico capoluogo lombardo in cui lo sguardo pubblico è totalmente assente dalle politiche teatrali?
Pavia, Brescia, Cremona, persino Lodi...
Oppure  pensiamo a Bergamo: una città che ha sì 130.000 abitanti ma che, in un teatro di 1150 posti, riesce a programmare 6 giornate solo di prosa con 6 turni di abbonamento per quasi 60 repliche complessive (a cui si aggiungono il cartellone "Altri Percorsi", che qui è morto (o è stato assassinato), e la gestione pubblica di un secondo teatro di 600 posti...).

Di fronte a questi numeri qualche domanda me la pongo:  perché ci siamo mai chiesti quanti - dei moltissimi abbonati delle stagioni di Prosa "storiche" del Cinema Impero - si sono, anche a causa di queste scelte, orientati verso Milano (o semplicemente hanno deciso di non abbonarsi più)? Sarebbe interessante confrontare i numeri degli anni 80 e 90 con quelli di oggi. Allora, e anche nelle prime stagioni all’Apollonio, la Prosa a Varese contava tre turni di abbonamento e 2.500 abbonati. E oggi?

Dove sono finiti quegli spettatori? Esiste anche a Varese, là fuori, un pubblico "colto" scomparso, che una volta andava all'impero a vedere Giorgio Gaber o Umberto Orsini e che, ora, ha deciso di guardare da un'altra parte? Al Piccolo, all'Elfo, al Franco Parenti?
Di che tipo di teatro stiamo parlando, quindi?

E perché – con il pretesto dell’indennizzo forfetario per l’impiego del teatro – in questi anni il Comune ha versato annualmente 230.000 € (che le giornate a disposizione venissero usate o meno), senza alcun tipo di controllo pubblico sulla programmazione, sulla sua qualità, sulla sua funzione culturale? Il nodo è tutto qui, non nel contributo (che, in sé, è solo sacrosanto).

Ma lì c’era almeno l’investimento iniziale, pressoché totale, di un costruttore che si è poi fatto carico della gestione. Ora, invece, l'accordo di programma e le sue linee economiche implicano - né più né meno - che ad un privato verrà sostanzialmente quasi regalato un teatro in cui potrà fare  praticamente quel che vuole, senza alcuna indicazione sugli indirizzi, sulla funzione, sul ruolo del teatro nella e per la comunità.  

E, anche in questo caso, di quale privato stiamo parlando? Di un costruttore? Di un impresario? O, per esempio, di un sistema di sussidiarietà gestionale con le realtà dell'associazionismo varesino? Nessuna risposta e per ora questo è il nitido quadro, non caricaturato, dell'intera operazione relativa al teatro di cui si parla dal dopoguerra.

Denaro pubblico senza un vero servizio e contenuto pubblico. Denaro investito nell'edificazione di un "monumento elettorale" il cui unico scopo è sostanzialmente solo il prolungamento dell'agonia di un ventennio che ormai, invece, vorrei credere giunto al capolinea.

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