sabato 7 maggio 2011

Paura della cultura

Paolo Grassi
Il "mio" Teatro del Popolo di Gallarate nasce nel 1921 - come "Casa del Proletariato" - grazie alla sottoscrizione volontaria degli operai della zona aderenti alla Camera del Lavoro.  Un teatro, appunto, del popolo. Nasce anche sulla base di un manifesto programmatico staordinariamente moderno, che recitava: 

"Il teatro del Popolo non è e non deve essere inteso come mezzo per offrire al pubblico proletario solo delle produzioni a carattere nettamente di parte, ma il mezzo più efficace per lo studio immediato delle diverse concezioni della vita: per dare al lavoratore quel grado di cultura che gli permetta di conoscere a fondo la società in cui vive”.

Non molto differente da quanto scrive Paolo Grassi nel 1947 a proposito del Piccolo Teatro:

"Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente e contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi sogni". 

Il teatro - e la cultura - come strumento di elevazione. Un'idea che, già in sè, implica l'immagine dell'"ascesa verso l'alto". Sempre con Paolo Grassi: 

"Trasformare il teatro significa oggi trasformare il pubblico. Trasformare il pubblico, significa dar modo al vero e miglior pubblico che ha sensibilità e passione per l’arte, di accedere in platea. […] In termini più concreti sarà un teatro per tutti: non escluderà gli abituali frequentatori ma anzi offrirà loro, al di fuori dello snob, testi che non trovano vita nei repertori regolari, e attrarrà, con tutti i mezzi, il grande pubblico reclutandolo nelle scuole e nelle officine anzitutto". 

Ora: ieri ho partecipato ad un interessante dibattito sulla cultura a Varese, organizzato dal giovane candidato del PD Andrea Civati. Tra i vari interventi, tuttavia, mi è parso di scorgere il filo rosso - non nuovo ma, a mio modo di vedere, sempre molto preoccupante - della paura di far riferimento alla cultura (anche solo sul piano terminologico) come orizzonte iperuranico, strutturalmente snob, spaventoso, tedioso o "scolastico" per "i giovani". La cultura "alta" come una inevitabile fantozziana "boiata pazzesca", da cui fuggire a gambe levate o a cui sostituire una cultura più "popolare", che faccia più "presa", che riesca a "coinvolgere" i ggggiovani.

Qualche anno fa questa stessa tesi era stata espressa o suggerita da un'amica giornalista a proposito del grande successo riscosso al Teatro Apollonio di Varese dallo spettacolo "A un passo dal sogno", realizzato dal Team di "Amici" di Maria De Filippi:

"Solo così il teatro rivive, solo così il pubblico può ricominciare davvero a riconoscere ed apprezzare le differenze tra quel che è fatto bene e quel che no, quello che ha dietro riflessioni approfondite e menti sveglie e quello che è arraffazzonato per sfruttare il momento. Perchè di questo il teatro ha bisogno, per continuare a vivere in un mondo dove lo spettacolo arriva già a domicilio: non la sclerosi da "teatro colto" che ha ingessato trent'anni di spettacolo italiano (e che ne ha, ormai, di fatto, ucciso la prosa)".

Giorgio Gaber, in un bel monologo tanti anni fa, diceva: “Mia nonna nel 1948 votava DC, ora vota PCI. – Un bello spostamento a sinistra? – No, è la politica che si è spostata a destra, mia nonna è rimasta lì!”.

Vedi come funziona la teoria della relatività? Dipende dal quadro di riferimento fisso che assumi. L’aria tanto meno è inquinata quanto più innalzi i livelli della soglia d’attenzione. La sinistra tanto più può vincere quanto più cessa di essere sinistra...

E il teatro? Il teatro tanto più si può “salvare” quanto più cessa di essere teatro per diventare qualcosa d’altro, televisione, intrattenimento, talk-show?

Per favore, non scherziamo. Ancora una volta, anziché ragionare sull’antica, nobile e democratica idea della “formazione del pubblico” si abbassa la soglia dell’arte ed arte diviene ciò che è immediatamente gradito, consumato, goduto. L’arte come ancella dell’audience. L’arte che tanto più è arte quanto meno è arte. E quanto più viene enfatizzata l’idea di “godimento”, di “partecipazione del pubblico”, tanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare anche qualitativa – misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio stesso. Sempre con Gaber: "non è il numero, è la testa".

L’errore è nel pensare (o nel suggerire) che il teatro “colto” sia o debba essere – necessariamente – teatro paludato in rituali élitari, e che il suo contraltare sia non già un’azione volta al rinnovamento della scena e della platea (anche in senso anagrafico) ma la mortificazione della scena e la “semplificazione” della platea, della sua intelligenza e delle sue opzioni estetiche.

Eppure un teatro popolare – che è e rimane profondamente teatro – esiste e resiste, nonostante tutto, e ha pubblici giovani, consistenti, significativi: esistono Ascanio Celestini, Marco Paolini, Emma Dante, Serena Sinigaglia... Ed esiste anche un Teatro di Prosa (apparentemente) più tradizionale ma intelligente e vivo: penso per esempio al Teatro dell’Elfo come "modello" anche economico di una compagnia che ha costruito un suo pubblico affezionatissimo e giovane, una sua solida economia d’impresa e che si è ben guardato dal trasformarsi (anche negli anni della “Milano da bere”) in una sorta di "Teatro Parioli" dedito all’intrattenimento.

"Salvare" il teatro nell’era della televisione non può significare trasformarlo in qualcosa che non è. Che razza di salvataggio è? Come il teatro in TV non è né teatro né TV, così la TV in teatro non è né teatro né TV. Quel che salva il teatro, semmai, è l’orgogliosa e coerente rivendicazione della sua profonda “alterità” artistica e – al contempo – un’azione profonda di sostegno pubblico all’estensione massima possibile del suo godimento. Cambiare la testa dei programmatori e degli amministratori per cambiare (ed arricchire) la platea.

E questo anche in chiave di politica e sostegno pubblico alla cultura: la mia persuasione, che rivendico ormai senza alcun imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione di sinistra, è che – senza esclusività - il luogo della politica teatrale pubblica debba essere il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski, Celestini e Paolini, ben più degli “Amici” di Maria De Filippi o dei Fratelli Vanzina. Che la ratio del Welfare in campo culturale sia solo nella promozione ed il sostegno della cultura “alta”, tanto più perché – in una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo, maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior disequilibrio di mercato.

Il tutto lungo un’idea sinceramente democratica (pare paradossale) di cultura “alta”: come di un vero e proprio diritto civile, di un bene pubblico. L’idea che la cultura (ammesso che si possa avere un'idea condivisa di ciò che il termine significa) possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti, essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia o dell'arte contemporanea, mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne fanno parte.

E quando sostengo che quest'approccio alla spesa pubblica per la cultura è, secondo me, di sinistra lo sto dicendo proprio alla sinistra, in chiave anche polemica: per scongiurare, in epoca di "maanchismo", la voglia di politiche culturali piattamente nazional-popolari, che declinando in forma semplificata la nobile idea di "cultura popolare" rischiano di tradurla al ribasso, più in linea con il Grande Fratello che con Roberto Leydi. Nella persuasione - espressa in buona o cattiva fede - che "si parta da lì" e che - con una metafora - bere Coca Cola a raffica aiuti, in futuro, ad apprezzare il Barolo. Liberissimi di farlo: senza però tentare di convincermi che la Coca Cola - che io del resto amo molto - può rientrare nella sfera dell'alta cucina.

Altrimenti, davvero, una tonnellata di salamelle ci seppellirà.

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