venerdì 20 maggio 2011

Un'infinita mancanza di Gianni Rodari: "Giacomo di cristallo"

Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l'aria e l'acqua. Era di carne e d'ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava in pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente.
Si vedeva il suo cuore battere, si vedevano i suoi pensieri guizzare come pesci colorati nella loro vasca.
Una volta, per sbaglio, il bambino disse una bugia, e subito la gente poté vedere come una palla di fuoco dietro la sua fronte: ridisse la verità e la palla di fuoco si dissolse. Per tutto il resto della sua vita non disse più bugie.
Un'altra volta un amico gli confidò un segreto, e subito tutti videro come una palla nera che rotolava senza pace nel suo petto, e il segreto non fu più tale.
Il bambino crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo, e ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli facevano una domanda, prima che aprisse bocca.
Egli si chiamava Giacomo, ma la gente lo chiamava “Giacomo di cristallo”, e gli voleva bene per la sua lealtà, e vicino a lui tutti diventavano gentili.
Purtroppo, in quel paese, salì al governo un feroce dittatore, e cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo. Chi osava protestare spariva senza lasciar traccia. Chi si ribellava era fucilato. I poveri erano perseguitati, umiliati e offesi in cento modi.
La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze.
Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno. Di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza.
Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri.
Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire.
Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano.

martedì 17 maggio 2011

Senza chiedere permesso: il flash-mob come teatro politico

E' circolata molto in rete, in questi giorni, la celebre invettiva di Gramsci contro l'indifferenza. Ne ripropongo un brano:

"Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo"?

Il teatro, con i suoi mezzi, ha sempre cercato di vincere l'indifferenza per farsi riflessione politica sul mondo. Dall'Antigone alle Troiane, da Piscator e Brecht ad Heiner Müller, passando per le forme dello happening e del teatro di strada del Living Theatre  di Julian Beck e Judith Malina o del Bread & Puppet di Peter Schumann.

E' quest'ultima la forma di teatro  politico che - nel presente - mi interessa maggiormente e che pare, oggi, vivere una "seconda giovinezza" (peraltro apparentemente quasi del tutto immemore della prima, quasi si trattasse di una novità) nella forma del flash-mob.

Da wikipedia: flash mob è "una riunione, che si dissolve nel giro di poco tempo, di un gruppo di persone in uno spazio pubblico, con la finalità comune di mettere in pratica un'azione insolita. Il raduno viene generalmente organizzato via internet (social email, networks o telefonia cellulare). Le regole dell'azione possono essere illustrate ai partecipanti pochi minuti prima che questa abbia luogo o possono essere diffuse con un anticipo tale da consentire ai partecipanti di prepararsi adeguatamente".

In questa definizione - rispetto allo happening degli anni '70 - quel che è realmente nuovo è, da un lato, la forma organizzativa, ossia la rete come strumento massivo di comunicazione, aggregazione e coordinamento. Dall'altro, il fatto - estremamente rilevante, a mio modo di vedere - che l'azione, sia pur elaborata anticipatamente in forme variabilmente complesse sul versante della drammaturgia, prescinda quasi totalmente dalla dimensione delle prove, affidandosi sostanzialmente, per quanto riguarda gli individui, al modello dell'improvvisazione su canovaccio.

Da qui la sua straordinaria, per quanto potenziale, forza d'impatto sul piano del numero di persone coinvolte e al contempo la sua, altrettanto potenziale, freschezza non mediata da un eccessiva sovrastruttura di conoscenze tecnico-attoriali (e quindi da una forte carica di sincerità: non abbiamo a che fare con attori ma con persone che si mettono in gioco per comunicare un'idea, o un valore, o una protesta o una proposta).

Vi è quindi una sorta di doppio primato: da un lato della costruzione drammaturgica, tendenzialmente non-verbale e molto tesa alla simbolizzazione estrema ma semplificata (e tendenzialmente anche un po' didascalica e retorica in senso positivo) del tema oggetto dell'azione. Dall'altro - e costitutivamente - del dato organizzativo e comunicazionale che ne rende effettivamente possibile la realizzazione.

Chiaro il collegamento con il tema dell'indifferenza: l'happening, come il flash mob, hanno in comune la persuasione che - del tutto al di là del dato artistico (il cui approfondimento potrebbe tuttavia essere fortemente significativo per una maggior efficacia comunicativa dell'azione) - l'atto teatrale politico si propone come intrusione senza chiedere permesso nell'indifferente vita quotidiana delle persone. Imponendo loro - con la forza dell'insolito, a volte dello sgradevole o magari, al contrario, del bello: sempre comunque tracciando un segno nello sfondo grigio dell'ambiente circostante - la percezione di una differenza. Che, come scrive Gregory Bateson, è il dato costitutivo della conoscenza.

L'indifferenza si vince demarcando una differenza come atto informativo e conoscitivo.

E questa non è più la dimensione del teatro politico  o civile che siamo soliti considerare oggi: i Paolini, i Celestini, gli allestimenti brechtiani o i cabarettisti "amici" o, di recente, i (sia pur interessanti) one man show di Travaglio o di Saviano. Il teatro “politico”, in quanto tale pare chiudersi nell’autoreferenzialità del destinatario: pubblico del teatro politico è, per elettività, pubblico già persuaso, che si raduna - clan più o meno compiaciuto della propria koinè - nella torre eburnea del rito, acquietandosi nella conferma delle proprie convinzione tramite la condivisione di quanto accade, e viene detto, sul palco. Bello scoprire che qualcuno, con gli strumenti dell’arte scenica, dice ciò che già pensiamo. Ma quale trasformazione può implicare – oltre il dato artistico – un teatro di conferma? Si tratta del contraltare rasserenante (e gratificante, almeno su un piano che mi piace definire “allucinatorio”) del teatro borghese tradizionale, della commedia brillante, di un cabaret che non graffia più. Molto più inquietante Shakespeare, allora, ancor oggi.

Il flash mob, come lo happening, al contrario non cercaattende lo spettatore "pagante" ma lo raggiunge gratuitamente. Lo costringe, per pochi minuti, a vedere ed ascoltare. Forse a capire. Non persuade, segna. Non parla tanto - o solo - all'intelletto, ma alla sensibilità.

E forse - in un'epoca che (fino a ieri, solo fino a ieri!) pareva aver perso la sensibilità - il teatro può dunque nuovamente venire in soccorso alla politica come primaria forma di comunicazione, in grado di restituire umanità e spessore al cicaleccio del tempo.

martedì 10 maggio 2011

La creatività giovanile tra speranza e progetto

Specialmente la paura è uno stato che annulla gli uomini. Se ciò è vero, vale il vivificante contrario per la speranza, intesa in senso soggettivo e – più che mai – oggettivo. E quand'anche poco importi se venga a costare più o meno costruire dei meri castelli in aria, da cui poi risultino i sogni ottativi, adoperati in modo esclusivamente disonesto, la speranza, con il progetto e il raccordo con il 'possibile a scadenza', è la realtà più forte e migliore che si dia” (Ernst Bloch)  

Dopo questa breve premessa "filosofica" mi pare interessante riportare un altro ampio stralcio:

"In un passato relativamente recente, Milano e più in generale la Lombardia si distinguevano per la propria capacità di produrre innovazione culturale (si pensi per esempio ai campi dell’arte contemporanea, della moda e del design). Negli ultimi decenni sono venute meno le condizioni che hanno favorito la nascita e l’affermazione dell’eccellenza creativa lombarda e si assiste oggi alla proliferazione di singole iniziative pubbliche di grande richiamo che tuttavia non rappresentano il frutto di adeguati percorsi di ricerca, formazione, sperimentazione e produzione artistica e culturale.

Si ritiene che questa situazione possa essere ricondotta in particolare alla presenza di: 

1) un sistema formativo che, specie se confrontato con le esperienze internazionali che tendono a trasmettere conoscenze e competenze in modo innovativo, non sembra in grado di educare alla creatività né di intercettare e valorizzare le eccellenze in campo artistico e culturale;

2) un contesto logistico sfavorevole, frutto di una carente programmazione nella destinazione degli spazi. In Lombardia, i rari esempi di luoghi finalizzati alla promozione della contemporaneità e dei nuovi linguaggi faticano a competere con altre destinazioni d’uso in grado di garantire rendimenti nettamente superiori;

3) un tessuto socio-economico estremamente condizionato da fattori economico-finanziari che tende a reclutare e assorbire i migliori talenti artistici a fini quasi esclusivamente “commerciali”, deprimendo le opportunità di emersione delle forme più spontanee e originali di espressione e produzione creativa;

4) un contesto socio-politico che penalizza le generazioni più giovani rendendo loro più difficile l’accesso ai circuiti produttivi e più rara la possibilità di organizzare autonomamente attività di ricerca e sperimentazione artistica."

Molto interessante, vero? Chi dice queste cose? Si tratta forse di un documento o di una parte del programma di Sinistra Ecologia Libertà, o della coalizione di centro-sinistra? 

Niente di tutto questo.

Si tratta della premessa ("il problema") che Fondazione Cariplo pone a fondamento motivazionale del suo bando 2011 aperto (ossia senza scadenza) dal titolo "Valorizzare la creatività giovanile in campo artistico e culturale".

Significativo, vero? Significativo che (ma d'altra gli operatori culturali si sono ormai abituati a constatarlo da anni) una fondazione bancaria scavalchi e prevenga in forma così chiara e lungimirante la disattenta considerazione della politica per individuare i nodi (sociali, economici e culturali) della contemporaneità e, coerentemente, porre a disposizione nei limiti del possibile parte degli strumenti finanziari che possono concorrere a scioglierne una parte.

Prosegue Fondazione Cariplo: "Il bando non è finalizzato alla promozione delle sole arti dal vivo (musica, teatro, danza, ecc.), ma mirato al sostegno di tutte le forme di espressione artistica e culturale che: 

1. si connotino per un approccio di tipo creativo, inteso soprattutto come orientamento alla ricerca artistica e culturale, alla sperimentazione e all’uso di nuovi linguaggi; 

2. siano gestite dai giovani o ne garantiscano un adeguato coinvolgimento sia nella fase organizzativa sia in quella di realizzazione".

Straordinario. Un bando aperto, che consente tempi di maturazione ed approfondimento e rigorizzazione delle progettualità. Nessun aggancio a prospettive economicistiche (nel senso deteriore del termine) ma una spinta alla ricerca e alla sperimentazione, ai nuovi linguaggi, al fronte della contemporaneità. Non solo: viene privilegiata, al punto 2., l'autonomia realizzativa e gestionale da parte dei giovani, senza tutele più o meno paternalistiche o "di controllo" adulto (e adulterato). Trovate i vostri percorsi e noi vi daremo - per quanto possibile - gli strumenti per sostenerli...

Ancora una volta non voglio proporre risposte ma segnalare possibili percorsi di approfondimento, evidenziando come ancora una volta il problema principale del tutto evidentemente non siano le risorse ma l'attenzione, la considerazione, le scelte.

E allora mi chiedo: di fronte alla radicale complessità, motivazionale ed esistenziale, che l’attuale contesto socio-economico pone all’orizzonte del futuro dei giovani; di fronte ad un orizzonte incerto e insieme apparentemente (e paradossalmente) obbligato, caratterizzato dalla tendenziale e progressiva scomparsa di riferimenti stabili e dalla conseguente necessità di una flessibilità che rischia, tuttavia, di configurarsi come permanente precarietà; di fronte ad un orizzonte, dunque, la cui posta può essere letta, da un lato, come angusta chiusura (anche motivazionale) ad un futuro arido, senza prospettive, privo di voli ideali ma al contempo, e a contraltare, come un orizzonte frangibile che – forse proprio nella creatività e nella sua capacità dirompente – trova gli strumenti per un nuovo possibile sogno ad occhi aperti. 

Di fronte a tutto questo torna di straordinaria attualità la splendida citazione di Ernst Bloch posta ad introduzione di questo testo: se la posta si gioca “tra speranza e paura” è allora forse possibile – un “possibile a scadenza” declinato con il rigore del “progetto” - tentare di aprire l’orizzonte, restituire al gioco dei bisogni, delle attitudini, degli interessi culturali, delle motivazioni individuali e della loro realizzazione una possibile visione (e costruzione) del futuro.

Se questo futuro – tuttavia – si colloca anzitutto nell’universo del lavoro, mi pare allora naturale connettere questa visione concretamente utopica al tentativo di capire se sia realmente possibile, anche e soprattutto sulla base di scelte anche amministrative, individuare percorsi formativi e produttivi che consentano di intravedere gli estremi di un nuovo patto tra creatività e lavoro. La creatività e le sue realizzazioni, cioè – oltre l’immagine “romantica” dell’artista tutto “genio e sregolatezza” – come comparti professionali, e dunque anche economici: in una parola, mestieri. 

La possibilità che la creatività giovanile, l'arte indipendente (cinema, musica, teatro, scultura,...) si concretizzi in concreta prospettiva di vita, in un possibile centro stabile di lavoro riconosciuto, sostenuto e partecipato dal Comune.  Da qui, tra l'altro, la bella ed interessantissima convergenza tra quanto indicato da Fondazione Cariplo e ripreso qui e quanto proposto da Angelo Zappoli a proposito del Castello Manfredi come possibile incubatore per una realtà di "lavoro comune" giovanile. C'è lo spazio possibile; ci sono le possibili risorse.

Mancano ancora, ma ci saranno in futuro?, le volontà politiche.

lunedì 9 maggio 2011

C'era una volta "Altri Percorsi"

C'era una volta in Lombardia - e rappresentava un vero e proprio modello organizzativo, finanziario e culturale, fortemente voluto e sostenuto dalla Regione nel quadro della antica e splendida L.R. 58/77 - un circuito/progetto di attività teatrale capillare e decentrata il cui obiettivo era la diffusione territoriale, nei luoghi in cui venivano già normalmente organizzate delle stagioni di Prosa, di spettacoli di straordinario valore artistico che tuttavia - per il loro carattere innovativo e per la strutturale distanza dalle logiche produttive dello "star system" - venivano definiti dalla Regione stessa "a più alta valenza e rischio culturale". 

Da queste premesse la scelta di allora, straordinariamente innovativa e coerente: in un quadro di finanziamenti regionali prevalentemente orientati al sostegno della produzione, la Regione Lombardia decideva di stanziare parte dei propri contributi a favore di tutti quei teatri che decidessero di affiancare alla stagione ordinaria un programma parallelo di ospitalità e promozione di quel repertorio, nella persuasione che la modificazione e formazione dei gusti del pubblico potesse e dovesse essere perseguita proprio tramite l'offerta di visibilità e sostegno a quel repertorio.

Il progetto, con sintesi efficacissima, prese il nome di Altri Percorsi e l'iniziativa - per parte degli anni '80 e per tutti gli anni '90 - si diffuse a macchia d'olio sull'intero territorio regionale, giungendo a coinvolgere più di 40 comuni. La Lombardia era divenuta - per l'intera area del teatro d'innovazione nazionale ed in particolare per le compagnie lombarde - un vero e proprio mercato sostenibile.
Anche Varese, per molti anni, aderì al progetto, ed in città - al Cinema Teatro Nuovo ma anche al Teatro Impero - fu possibile assistere a spettacoli straordinari, che, per molti versi, hanno costruito la storia del nuovo teatro italiano: dalla Storia di Giulietta e Romeo di Laboratorio Teatro Settimo alla Notte dei Mulini del Teatro delle Briciole; dal Racconto del Vajont di Marco Paolini (molto prima dei fasti televisivi) al Kohlhaas di Marco Baliani sino ai primi allestimenti di Serena Sinigaglia e dell'ATIR.  

Poi, anche a causa della spinta "demolitrice" dell'Ass. Ettore Albertoni - che trasformò "Altri Percorsi" in uno strano ed inutile ibrido denominato oggi "Circui Teatrali Lombardi" e che sopravvive faticosamente, del tutto snaturato, solo in alcuni territori - più nulla. All'inizio del nuovo millennio - in quasi precisa coincidenza con la nascita del Teatro Apollonio - anche Varese cessa di aderire al progetto (peraltro in questo modo rinunciando alle risorse provenienti dalla Regione).

E il nuovo teatro scompare di fatto per anni dall'orizzonte della programmazione teatrale varesina. Fino a tempi recenti in cui - grazie ad un progetto di rete finanziato dalla Fondazione Cariplo ed in parte dal Comune di Varese e a cui ha aderito Filmstudio 90 - hanno fatto capolino in città alcuni degli artisti più interessanti della nuova generazione teatrale, da Ascanio Celestini a Davide Enia. 

Si tratta, peraltro, di un'esperienza - almeno sulla base dei finanziamenti Cariplo - ormai conclusa. Ed il problema, per la città, è che questo teatro, che rappresenta realmente il luogo possibile della rinascita di un pubblico possibile, rischia di rimanere, per il futuro, totalmente al margine della considerazione pubblica

Un vero peccato, crediamo, perché questo teatro d'innovazione - nel manifestarsi sul palcoscenico - si pone però l'obiettivo di riverberarsi anche e soprattutto in platea, nel pubblico, nella sua composizione culturale ed anagrafica: esiste, cioè, un teatro non paludato, fresco, contemporaneo, in grado di rivolgersi alle giovani generazioni attraverso arte, ricerca, linguaggi e temi del nostro tempo: verso un'idea di futuro e di funzione anche formativa e pedagogica del teatro d’arte.
 
Una necessità, a nostro avviso. Ed una necessità che pare svilupparsi in chiave che potremmo definire co-evolutiva: non è infatti casuale che al deficit di domanda corrisponda un sempre più progressivo invecchiamento del pubblico, che alla cronica carenza di proposte contemporanee sulle assi del palco corrisponda una sistematica e progressiva diserzione della platea da parte delle generazioni più giovani. E tuttavia pare – stando alle più recenti rilevazioni – che via sia un rinnovato interesse dei giovani per il teatro (sia pure con una forte preferenza opzionale per il teatro recitato più che per il teatro visto) e per il portato di relazione che porta con sè. La sensazione, quindi, è che il problema verta più che sulla costruzione di una domanda – un’opzione che, peraltro, sarebbe in ogni caso ampiamente motivata da istanze valoriali di formazione del pubblico – sulla possibilità di consentirne la manifestazione. In una sorta di circolo vizioso – che è insieme organizzativo, economico, promozionale -, dunque, è possibile ipotizzare che la domanda di innovazione rimane inespressa (e pare quindi non esistere) perchè vi è un deficit di offerta, a sua volta motivato da una, altrettanto ipotetica, assenza di domanda.
Perchè allora, ed ecco la proposta concreta, non tornare a prevedere una normale e permanente programmazione "alta" di questo tipo? Perchè non prevederla nel quadro della ordinaria programmazione teatrale cittadina e, perchè no?, individuando nel Cinema Teatro Nuovo il luogo e la sede naturale di questi nuovi "Altri Percorsi" (una sorta di "Stabile d'Innovazione"). Perchè - anche a fronte di un (pare...) rinnovato interesse della Regione Lombardia a recuperare l'esperienza degli anni '90 - non tornare ad esplorare gli strumenti, finanziari ed organizzativi, per la riproposta di un teatro diverso per un pubblico diverso? Perchè non immaginare che - anche a Varese - possano tornare a fare la loro comparsa, sistematicamente, Pippo Del Bono ed Emma Dante, Babygang e Out Off, Valdoca e Mario Perrotta ma anche - paradossalmente - Teatro dell'Elfo, Sandro Lombardi, lo stesso Celestini?   

sabato 7 maggio 2011

Paura della cultura

Paolo Grassi
Il "mio" Teatro del Popolo di Gallarate nasce nel 1921 - come "Casa del Proletariato" - grazie alla sottoscrizione volontaria degli operai della zona aderenti alla Camera del Lavoro.  Un teatro, appunto, del popolo. Nasce anche sulla base di un manifesto programmatico staordinariamente moderno, che recitava: 

"Il teatro del Popolo non è e non deve essere inteso come mezzo per offrire al pubblico proletario solo delle produzioni a carattere nettamente di parte, ma il mezzo più efficace per lo studio immediato delle diverse concezioni della vita: per dare al lavoratore quel grado di cultura che gli permetta di conoscere a fondo la società in cui vive”.

Non molto differente da quanto scrive Paolo Grassi nel 1947 a proposito del Piccolo Teatro:

"Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente e contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi sogni". 

Il teatro - e la cultura - come strumento di elevazione. Un'idea che, già in sè, implica l'immagine dell'"ascesa verso l'alto". Sempre con Paolo Grassi: 

"Trasformare il teatro significa oggi trasformare il pubblico. Trasformare il pubblico, significa dar modo al vero e miglior pubblico che ha sensibilità e passione per l’arte, di accedere in platea. […] In termini più concreti sarà un teatro per tutti: non escluderà gli abituali frequentatori ma anzi offrirà loro, al di fuori dello snob, testi che non trovano vita nei repertori regolari, e attrarrà, con tutti i mezzi, il grande pubblico reclutandolo nelle scuole e nelle officine anzitutto". 

Ora: ieri ho partecipato ad un interessante dibattito sulla cultura a Varese, organizzato dal giovane candidato del PD Andrea Civati. Tra i vari interventi, tuttavia, mi è parso di scorgere il filo rosso - non nuovo ma, a mio modo di vedere, sempre molto preoccupante - della paura di far riferimento alla cultura (anche solo sul piano terminologico) come orizzonte iperuranico, strutturalmente snob, spaventoso, tedioso o "scolastico" per "i giovani". La cultura "alta" come una inevitabile fantozziana "boiata pazzesca", da cui fuggire a gambe levate o a cui sostituire una cultura più "popolare", che faccia più "presa", che riesca a "coinvolgere" i ggggiovani.

Qualche anno fa questa stessa tesi era stata espressa o suggerita da un'amica giornalista a proposito del grande successo riscosso al Teatro Apollonio di Varese dallo spettacolo "A un passo dal sogno", realizzato dal Team di "Amici" di Maria De Filippi:

"Solo così il teatro rivive, solo così il pubblico può ricominciare davvero a riconoscere ed apprezzare le differenze tra quel che è fatto bene e quel che no, quello che ha dietro riflessioni approfondite e menti sveglie e quello che è arraffazzonato per sfruttare il momento. Perchè di questo il teatro ha bisogno, per continuare a vivere in un mondo dove lo spettacolo arriva già a domicilio: non la sclerosi da "teatro colto" che ha ingessato trent'anni di spettacolo italiano (e che ne ha, ormai, di fatto, ucciso la prosa)".

Giorgio Gaber, in un bel monologo tanti anni fa, diceva: “Mia nonna nel 1948 votava DC, ora vota PCI. – Un bello spostamento a sinistra? – No, è la politica che si è spostata a destra, mia nonna è rimasta lì!”.

Vedi come funziona la teoria della relatività? Dipende dal quadro di riferimento fisso che assumi. L’aria tanto meno è inquinata quanto più innalzi i livelli della soglia d’attenzione. La sinistra tanto più può vincere quanto più cessa di essere sinistra...

E il teatro? Il teatro tanto più si può “salvare” quanto più cessa di essere teatro per diventare qualcosa d’altro, televisione, intrattenimento, talk-show?

Per favore, non scherziamo. Ancora una volta, anziché ragionare sull’antica, nobile e democratica idea della “formazione del pubblico” si abbassa la soglia dell’arte ed arte diviene ciò che è immediatamente gradito, consumato, goduto. L’arte come ancella dell’audience. L’arte che tanto più è arte quanto meno è arte. E quanto più viene enfatizzata l’idea di “godimento”, di “partecipazione del pubblico”, tanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare anche qualitativa – misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio stesso. Sempre con Gaber: "non è il numero, è la testa".

L’errore è nel pensare (o nel suggerire) che il teatro “colto” sia o debba essere – necessariamente – teatro paludato in rituali élitari, e che il suo contraltare sia non già un’azione volta al rinnovamento della scena e della platea (anche in senso anagrafico) ma la mortificazione della scena e la “semplificazione” della platea, della sua intelligenza e delle sue opzioni estetiche.

Eppure un teatro popolare – che è e rimane profondamente teatro – esiste e resiste, nonostante tutto, e ha pubblici giovani, consistenti, significativi: esistono Ascanio Celestini, Marco Paolini, Emma Dante, Serena Sinigaglia... Ed esiste anche un Teatro di Prosa (apparentemente) più tradizionale ma intelligente e vivo: penso per esempio al Teatro dell’Elfo come "modello" anche economico di una compagnia che ha costruito un suo pubblico affezionatissimo e giovane, una sua solida economia d’impresa e che si è ben guardato dal trasformarsi (anche negli anni della “Milano da bere”) in una sorta di "Teatro Parioli" dedito all’intrattenimento.

"Salvare" il teatro nell’era della televisione non può significare trasformarlo in qualcosa che non è. Che razza di salvataggio è? Come il teatro in TV non è né teatro né TV, così la TV in teatro non è né teatro né TV. Quel che salva il teatro, semmai, è l’orgogliosa e coerente rivendicazione della sua profonda “alterità” artistica e – al contempo – un’azione profonda di sostegno pubblico all’estensione massima possibile del suo godimento. Cambiare la testa dei programmatori e degli amministratori per cambiare (ed arricchire) la platea.

E questo anche in chiave di politica e sostegno pubblico alla cultura: la mia persuasione, che rivendico ormai senza alcun imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione di sinistra, è che – senza esclusività - il luogo della politica teatrale pubblica debba essere il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski, Celestini e Paolini, ben più degli “Amici” di Maria De Filippi o dei Fratelli Vanzina. Che la ratio del Welfare in campo culturale sia solo nella promozione ed il sostegno della cultura “alta”, tanto più perché – in una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo, maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior disequilibrio di mercato.

Il tutto lungo un’idea sinceramente democratica (pare paradossale) di cultura “alta”: come di un vero e proprio diritto civile, di un bene pubblico. L’idea che la cultura (ammesso che si possa avere un'idea condivisa di ciò che il termine significa) possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti, essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia o dell'arte contemporanea, mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne fanno parte.

E quando sostengo che quest'approccio alla spesa pubblica per la cultura è, secondo me, di sinistra lo sto dicendo proprio alla sinistra, in chiave anche polemica: per scongiurare, in epoca di "maanchismo", la voglia di politiche culturali piattamente nazional-popolari, che declinando in forma semplificata la nobile idea di "cultura popolare" rischiano di tradurla al ribasso, più in linea con il Grande Fratello che con Roberto Leydi. Nella persuasione - espressa in buona o cattiva fede - che "si parta da lì" e che - con una metafora - bere Coca Cola a raffica aiuti, in futuro, ad apprezzare il Barolo. Liberissimi di farlo: senza però tentare di convincermi che la Coca Cola - che io del resto amo molto - può rientrare nella sfera dell'alta cucina.

Altrimenti, davvero, una tonnellata di salamelle ci seppellirà.

giovedì 5 maggio 2011

Un'inspiegabile assenza - Il Teatro Ragazzi

Se in un articolo di alcuni giorni fa, Piccoli concittadini invisibili, esponevo le ragioni fondative di un'attenzione privilegiata all'infanzia in materia di politica culturale, oggi mi piace l'idea di porre un problema molto semplice e lineare. 
Non si tratta, in questo caso, di un programma di ricerca di respiro particolarmente complesso ma, molto più banalmente e linearmente, della segnalazione di un'assenza. Un'assenza di fatto del tutto inspiegabile, quantomeno sul piano della sostenibilità economica, della funzione e del servizio pubblico, del senso culturale.

In breve: la città di Varese - se si eccettua uno sporadico esperimento biennale effettuato presso l'Auditorium della Scuola Media Don Rimoldi di San Fermo sul finire degli anni '90 e le coraggiose e lodevolissime rassegne per famiglie organizzate negli ultimi anni al Cinema Teatro Nuovo dalla Compagnia Progetto Zattera – non ha mai organizzato in forma sistematica stagioni teatrali, scolastiche (in matinée) e per famiglie (domenicali pomeridiane), rivolte all'infanzia e alla gioventù. 

E questo, ripeto, è davvero inspiegabile: il teatro ragazzi si caratterizza dalla sua nascita - un dato che è insieme la sua forza e paradossalmente la sua debolezza - per la sua quasi incredibile e strutturale sostenibilità dal punto di vista dell'equilibrio di bilancio. Un dato ampiamente corroborato da dati storici ed economici, dalla crescita del settore in questi anni, dal fatto che il teatro per ragazzi rappresenta uno tra i comparti più sani del sistema imprenditoriale dello spettacolo sia dal punto di vista del numero di recite e giornate lavorative (e quindi del fatturato delle imprese e dei loro standards occupazionali) sia dal punto di vista delle presenze certificate dalla SIAE al botteghino. Un'economia sana in entrata e in uscita.

Cachet bassi, a volte di sussistenza, che consentono di praticare (anche per ragioni culturali e politiche) prezzi al pubblico calmieratissimi. Un'organizzazione che, rivolgendosi direttamente alle scuole, consente di contare su numeri aggregati straordinariamente significativi e tendenzialmente prossimi al pareggio tra entrate e uscite. La capacità di creare relazione e reale formazione, attraverso il tradizionale incontro di approfondimento con i ragazzi che caratterizza la conclusione dello spettacolo. Persino la possibilità - nelle realtà in cui vi è più forte relazione concertativa tra l'universo scolastico e la direzione artistica - di concordare preliminarmente con gli insegnanti gli spettacoli ospitati nelle rassegne, così da accertare già a valle della programmazione l'esistenza di un interesse, di una domanda, di tematiche condivise (e quindi, ancora una volta, un equilibrio che è al contempo economico, artistico e di servizio).
  
Questo valga, a maggior ragione a Varese, in un contesto cittadino che potrebbe aspirare "naturalmente" al ruolo di punto attrattore per un vastissimo bacino territoriale, denso di scuole di ogni ordine e grado. 

Proprio per questo – anche prescindendo dalle valutazioni di carattere strettamente culturale o "filosofico" – il quadro varesino appare paradossale. Varese spicca di fatto come l'unico capoluogo lombardo che non abbia gettato uno sguardo di sistema sull'attività teatrale rivolta all'infanzia. Di sistema: con rassegne che - come la Stagione Teatrale e la Stagione Musicale - siano stabili, certe, ricorrenti, attese. Non ri-negoziate di anno in anno - come accade per la rassegna domenicale della Zattera - e di anno in anno, ovviamente, segnate e ridimensionate dalla progressiva emorragia delle risorse pubbliche.

E' così difficile? Non credo, e alla fine di questo pezzo - come appendice - "darò alcuni numeri" ad evidenziarne la strutturale sostenibilità. 

Eppure il teatro per bambini viene via via declinato nei termini di sporadiche attività a cavallo tra l'animazione e l'intrattenimento fine a se stesso, in occasione delle festività o di qualche ricorrenza che consenta di coniugare commercio e ludus. Spesso, nel contempo, ricorrendo a professionalità quantomeno discutibili (ma a basso costo, quando non gratuite), nella supposizione – francamente avvilente – che all'infanzia in campo teatrale si possa propinare qualsiasi cosa, senza alcun risvolto educativo, formativo, men che meno culturale.

E', credo, una questione che ha profondamente a che vedere con visioni del mondo e della cultura, con una sostanziale svalutazione del carattere potenzialmente strategico dell'attività di spettacolo rivolta all'infanzia e alla gioventù. Molto semplicemente: il teatro ragazzi non interessa. Non è compreso. Non viene considerato attività culturale. Viene come al solito banalizzato ed appiattito sulla dimensione della formazione dei pubblici adulti di domani o assimilato tout court alle attività di svago. O interessa solo se, e in quanto, può rappresentare una risorsa spendibile in termini di immagine, di rilancio turistico, sostanzialmente di marketing o "spaccio" della cultura.  

Ma stiamo parlando dei bambini. In città che non pensano ai loro bambini - e non sono progettate, né pensate, in funzione del futuro - dalle famiglie ma anche dalla scuola emerge, con sempre maggior frequenza, una domanda di possibilità di svago, crescita, cultura, ricreazione e socializzazione per figli al contrario  tendenzialmente "monadici", isolati nel gioco e nell'apprendimento, silenziosi, straordinariamente "tecnologici" ma votati ad una "navigazione" esclusivamente telematica.

Ora: è' del tutto evidente che il teatro non è, né può essere, la panacea o l'antidoto di processi che paiono davvero investire l'intero dominio dello scambio e della vita sociale. Il teatro, in particolare il teatro per l'infanzia e la gioventù, è forse poca cosa. Anche in relazione ai bisogni dell'infanzia.  

E' tuttavia – direbbe Raymond Carver – "una cosa piccola, ma buona".

Perché il teatro e le sue forme possono aspirare al piccolo ma insostituibile ruolo di veicolo di briciole di cultura, comunicazione e relazione capaci forse di innescare lievi, ma fondamentali, processi in controtendenza. Il teatro ragazzi - quello serio, professionale, quello che da quarant'anni è compagno di strada di bambini, genitori ed insegnanti nella lunga strada verso la crescita - afferma costitutivamente il senso di un processo di relazione con un pubblico che, molto più di quanto non accada nel "teatro adulti", retroagisce con quanto accade "là sopra", ne modifica anche profondamente la storia e gli eventi; un teatro di evocazione, implicita nella logica dello spazio scenico e radicalmente negli stessi mezzi di produzione che caratterizzano il settore: un'evocazione che richiede la partecipazione del pubblico, l'attenzione attiva alla "creazione" di eventi, oggetti e dinamiche invisibili ma presenti in scena, un invito all'immaginazione.

E nelle rassegne, nell'attività seminariale e laboratoriale, nelle funzioni di servizio e consulenza al mondo della scuola, nel ruolo socializzante che ne caratterizza la storia è possibile sostenere che il teatro ragazzi assolve di fatto da quarant'anni una funzione pubblica, ponendosi come portatore di fattori di crescita, di cultura, di civiltà e configurandosi come momento importante della ricchezza formativa di cui il mondo dell'educazione deve essere portatore.

APPENDICE: dare i numeri, entrare nel concreto

Una buona rassegna di Teatro Ragazzi per le scuole - che possa aspirare ad essere punto attrattore per la partecipazione di un pubblico non solo cittadino - potrebbe prevedere l'ospitalità, diciamo, di circa 10 spettacoli rivolti alle scuole materne, elementari e medie (mi si perdoni la terminologia "antica", ma ci intendiamo).
Esagerando - e sapendo che il cachet medio attuale di uno spettacolo di Teatro Ragazzi professionale oscilla tra i 1.200 e i 2.000 € - il costo di una rassegna di queste dimensioni si può attestare su una spesa massimale di 20.000 €, comprensiva dei costi organizzativi e promozionali (che, in caso di cartelloni rivolti alle scuole, sono prossimi allo zero).

Supponendo una credibilissima presenza media di c.ca 350 bambini a spettacolo che paghino un biglietto d'ingresso calmieratissimo pari a 5 €, la rassegna può aspirare ad un volume in entrata di c.ca 17.500 €. Con oneri SIAE proporzionali che si aggirano intorno al 13,5% - cioè c.ca 2.350 € - l'intera iniziativa si assesta su un disavanzo tendenziale pari a 4.850 €. Per dieci spettacoli e 3.500 presenze.

Un investimento pari a 1,38 € a bambino in un progetto che arricchirebbe la città, la completerebbe e - probabilmente - potrebbe, se solo lo si volesse, porre in circolo risorse provenienti da assessorati diversi: dalla Cultura, ma anche dalla Pubblica Istruzione. Ma anche, infine, dall'Amministrazione Provinciale

Come si vede, ancora una volta il problema sono solo le volontà politiche, non la mancanza di risorse.

"Il libro del mondo" - Un Festival delle Culture

"L’altro giorno ho chiesto ad una amica commerciante: “Sai cos’è l’Italia?”. “L’Italia è Varese” mi ha risposto". (Dal Diario di Guido Morselli)

Trovo molto significativo e interessante che - sia pure nel panorama per lo più piuttosto desolante o rituale che caratterizza i "paragrafetti sulla cultura" - nel quadro dei diversi programmi elettorali che si vanno via via precisando in questi giorni ricorra con una certa frequenza l'idea di un Festival per la città di Varese. Se ne parla - tra l'altro con riferimento esplicito a "quelle esperienze teatrali di grande valore di cui il nostro Paese è ricchissimo, ma che fanno fatica a penetrare nei circuiti ufficiali" - nel programma di Unione Italiana (evidentissimo copyright, per chi lo conosce, by Raimondo Fassa); se ne parla, con maggiore genericità e "buttato lì" come ultimo punto, nel programma di Lega e PDL: "Creazione di un Festival della Cultura che promuova al suo interno l'arte in tutte le sue forme espressive (letteratura, teatro, cinema, pittura, scultura, musica, fotografia, ecc.)"; se ne parla infine, con molta maggior chiarezza e definizione di intenti, nel programma del PD: "... che il valore internazionale che la città di Varese ha assunto negli ultimi cinquant’anni (a partire dalla costituzione in loco della prima scuola europea e dalla successiva accoglienza di studenti africani presso il collegio De Filippi, fino alla significativa attuale presenza di molti stranieri di ogni età e di comunità etniche) sia rafforzato attraverso il “dialogo tra le culture”, ponendo in relazione costruttiva e arricchente le tradizioni locali e l’apporto valoriale e folklorico dei cittadini e delle comunità straniere. A tale proposito proponiamo di rafforzare, con la istituzione di un Festival delle culture, le diverse manifestazioni già attivate sul territorio a tale proposito, identificando nella amministrazione comunale cittadina l’istituzione promotrice del valore dell’accoglienza, del confronto e della integrazione".

Buone idee, davvero. Idee che - armonizzate, condivise e perseguite con significativi investimenti, qualità, rigore e serietà non propagandistica o "di periodo" - consentirebbero la convergenza e valorizzazione di una pluralità di bisogni e di esperienze nel tempo interrotte o semplicemente lasciate estinguere.
Penso, per esempio, alla fine un po' ingloriosa di "Amor di Libro" o alla sostanziale scomparsa del repertorio dell'arte scenica contemporanea (in tutte le sue espressioni) dal panorama cittadino; penso al continuo (e un po' assurdo, per certi versi) confronto con l'esperienza di Mantova ma anche - oltrepassando l'assurdità - alla straordinaria valenza anche turistica che un Festival realmente aperto al mondo potrebbe avere, per esempio attraverso la valorizzazione reale delle nostre reali ricchezze artistiche, paesaggistiche e culturali.

Penso, soprattutto, alla meravigliosa ironia di contrappasso che una città tradizionalmente considerata "chiusa", "gretta", "bottegaia", e definita pochi anni or sono "gruzzoletto dell'umanità" dalla corrosiva penna di Michele Serra, potrebbe dimostrare con una scelta in questa direzione, tornando capoluogo e collocandosi a pieno diritto e seriamente nel contesto delle città vive della nostra Regione e dell'intero Paese.
Cerchiamo di "sognare ad occhi aperti". Fingo di esserne l'organizzatore, la sola cosa che so fare. 
Mi immagino anzitutto il titolo, che richiama la strofa della splendida Khorakhane di Fabrizio De Andrè: "Il libro del mondo", a segnalare da subito la ricchezza di esperienze a cui la manifestazione vorrebbe aprirsi, nel segno dell'accoglienza, della bellezza di "un mondo a colori", della curiosità. 

Un Festival: quindi un'iniziativa che si snodi lungo una decina di giorni consecutivi, che preveda un programma che - aprendosi ogni anno a tutte le culture del mondo e a tutti i linguaggi dell'arte - proponga quotidianamente una pluralità di appuntamenti nel campo del teatro (anche per bambini), della danza, della letteratura, della poesia, del cinema, della musica. Magari immaginando, di anno in anno, un focus particolarmente dedicato all'approfondimento delle tradizioni di una specifica area geografica o di un Paese.

Un Festival: una manifestazione, quindi, che si caratterizzi per lo strutturale coinvolgimento - ideativo, progettuale, organizzativo - della comunità locale a tutti i livelli. Farsi rete e sistema: dalle strutture ricettive al sistema della ristorazione, dall'associazionismo agli Enti di Promozione Turistica. Una manifestazione che scombini e trasformi la stessa atmosfera del tessuto urbano cittadino attraverso l'incursione dell'arte e della cultura nella dinamica del tran tran quotidiano. Che impieghi e valorizzi appieno l'intero complesso delle strutture cittadine: dall'Apollonio al Santuccio, dalla Sala Veratti alla Sala Nicolini, da Villa Panza all'Auditorium sino al Sacro Monte, ai Giardini Estensi, a Villa Ponti...

Un Festival: quindi una manifestazione di ampio respiro, ricorrente, stabile, con uno staff, che viene progettata con cura nell'arco di un intero anno in vista dell'edizione successiva (questo avviene a Mantova, a Santarcangelo, a Cividale del Friuli, a Spoleto). Che radicalmente aspira alla sprovincializzazione e che quindi interpreta se stesso ed il proprio ruolo anche come investimento. Che quindi non chiede agli artisti - neppure a quelli locali - di lavorare gratuitamente, ma ne riconosce anche economicamente il valore... 

Fuori dal sogno: questa cosa è possibile? E' possibile immaginare un percorso in questa direzione per un Comune che - almeno sino ad oggi e comunque con riferimento a tutto il 2011 - non ha un Assessore alla Cultura e opera tagli al bilancio sul comparto pari all'80%?

Non lo so, francamente: certo solo i progetti d'orizzonte e di grande respiro possono indicare delle direzioni. E quindi, per esempio, consentire di avviare reali studi di fattibilità, contatti trasversali concreti con gli universi possibili del reperimento di risorse (dalle imprese agli Istituti di Credito, dalla Camera di Commercio alle Fondazioni bancarie, dalla grande distribuzione sino alla famigerata Arcus S.p.a., al Ministero, alla Regione, alla Provincia sino a giungere - perchè no? - alla prospettiva del mecenatismo privato).

E allora, perchè non provarci realmente? Altri - penso a Mantova - hanno iniziato a fantasticare come "quattro amici al bar"... Poi ai sogni, lentamente, sono cresciute le gambe. Ma il libro del mondo bisogna saperlo leggere.

mercoledì 4 maggio 2011

Un'idea al giorno, come una mela, per Varese


Un'idea al giorno. Da oggi. Per il teatro e la cultura. Che sono il mio mestiere. L'unico che credo di saper fare, un po'.

Tutti i candidati delle altre liste, a quanto vedo, ogni giorno, appena posano piede sul tappetino, di fianco al comodino, si inventano una cazzata da dire e comunicare urbi et orbi su qualsiasi argomento ("mmmm... e oggi? Oggi cosa racconto? Ah, ecco: la ginnastica all'aperto... gli skateboard... la movida che fa bene... il sindaco dei giovani con contratto a progetto... l'expo, che fa tanto trendy e lascia credere che non ho fatto una beata mazza fino ad oggi perché aspettavo il 2015, ma ora... ", ecc. ecc...). Citano beatamente Adam Smith facendolo passare, sul piano della sintassi, per uno scolaro di prima elementare, per giunta un po' asino (cfr. Massimo Rovera) o declamano con aria arguta Raymond Aron ribattezzandolo Raymond Aronne (cfr. Giuseppe Vuolo), denunciandone dunque la stretta parentela con Mosé.

Quindi anch'io, da domani, proverò a buttare lì un'idea - o una cazzata - tutti i giorni. Filo rosso, l'idea che la cultura è altro dall'intrattenimento.

Idee come programmi di ricerca, come spunti di riflessione, come temi per altrettanti concreti studi di fattibilità. I temi? Non necessariamente in ordine: (1) Un festival delle culture, che coniughi i linguaggi del teatro, del cinema, della poesia, della letteratura, dell'arte lungo un percorso nella ricchezza di un mondo molto più grande della padania; (2) Una rassegna stabile, permanente e finanziata di Teatro per Ragazzi, scolastico e per famiglie; (3) Il recupero di quel che fu Altri Percorsi e dei linguaggi del Teatro d'Innovazione come parte organica della programmazione teatrale cittadina; (4) La creazione di uno spazio pubblico e stabile di promozione della creatività giovanile in campo artistico e culturale; (5) Il superamento della metafora degli orticelli identitari delle realtà culturali varesine - tanto cara al Sindaco Fontana, di fatto come alibi - attraverso lo studio di una possibile Fondazione di partecipazione, che nasca dal basso, coaguli le realtà locali in un'unica progettualità e che trovi l'amministrazione disponibnile all'ascolto e al finanziamento; (6) L'istituzione di un centro studi-promozione culturale finalizzato alla elaborazione ed analisi di progetti concreti per il reperimento di risorse presso Fondazioni Bancarie, Regione, Comunità Europea, Imprese private. (7) Un progetto organico di sistematica gestione artistico-organizzativa per il Teatro Santuccio. Ecc., ecc.

Temi di analisi ovviamente non indipendenti gli uni dagli altri - e anzi profondamente interconnessi - che potrebbero forse iniziare a delineare l'idea di un sistema? Vedremo. Intanto - come la fatidica mela del proverbio (e del dipinto di Magritte) - io curerò la mia salute mentale affrontandone uno al giorno.