domenica 17 aprile 2011

La politica culturale pubblica tra servizio e valore

Immagino la cultura di una città come un’atmosfera, un ambiente, una vasca nella quale siamo permanentemente immersi e che può – o meno – essere densa di una pluralità di potenzialità di accesso ad un’occasione di arricchimento. In questo senso, sul piano dei principi, a monte della definizione di qualsiasi politica pubblica risiede la necessità di sciogliere la contraddizione – a mio parere solo apparente, ma che storicamente ha prodotto straordinari disastri - tra la cultura come servizio e la cultura come valore.

Parafrasando Paolo Grassi, una politica culturale pubblica coincide con lo slogan cultura di qualità (l’aggettivo è fondamentale: Grassi parlava di "teatro d'arte") per tutti. E la mia convinzione è che solo nel carattere rigorosamente unitario di questi due poli, nella necessità della loro congiunzione risieda una possibile idea-guida: il valore (la qualità) si connette al servizio (per tutti) in una proposizione che definisce al contempo un oggetto e il suo significato: l’idea di cultura pubblica.

E la dimensione del servizio, soprattutto, acquista la fisionomia di un’idea regolativa, i tratti di definizione di un diritto di accesso alla cultura di qualità. Non la definizione di un’attualità ma di una potenzialità. Del diritto al godimento di un valore.

La declinazione e la conseguenza di questa visione è un’idea della spesa pubblica per la cultura come necessario supporto del permanere di questa potenzialità: finchè l’estensione del godimento di questo diritto è concepita come un valore democratico (quindi anche il servizio è in realtà un valore), l’intervento pubblico si argomenta di principio in termini economici (necessità di politiche di agevolazione dell’accesso, politiche dei prezzi, ecc.) ma al contempo politici. In quest’ottica l’idea della cultura come servizio implica esclusivamente la produzione, proliferazione e diffusione di valori e la tensione alla massima estensione possibile, seppur potenziale, al godimento di quei valori.

Ma la dicotomia tra servizio e valore non è banale o di semplice soluzione: tanto più viene enfatizzata l’idea di servizio, infatti, quanto più viene sottolineata la necessità di una corrispondenza lineare – misurabile e quantificabile – tra domanda ed offerta del servizio stesso. Dalla televisione all’editoria al teatro, così, il primo dei due poli – la cultura di qualità – è stato declinato (al presente e al passato) lungo la prospettiva della semplificazione. “Per tutti” si è tradotto nel principio del “gradimento”, dell'audience, secondo cui se la cultura non è goduta, se il suo valore d’uso non viene consumato è forse meglio, allora, ridurre le aspettative. Se servizio deve essere, allora deve essere la risposta ad una domanda attuale, la soddisfazione di quella domanda, il modellare qualsiasi offerta su quella domanda. Il servizio diviene valore in sé, determinando una sostanziale mortificazione dell’istanza culturale, in una semplificatoria visione del mondo a matrice neo-liberista, in base alla quale tanto più senso possiede un servizio quanto più questo, nel presente viene consumato, usato, in una filosofia che declina sempre più il cittadino nel suo ruolo esclusivo di utente e consumatore.

L'idea di cultura pubblica risiede, invece, in una visione multidimensionale dell’uomo e del cittadino ed evidenzia come un ambiente caratterizzato dalle molte possibilità di formazione, dalle notevoli e diversificate risorse acculturanti, dalla pluralità degli stimoli cognitivi creano personalità e cittadini intelligenti, flessibili, in grado di operare nella contemporaneità con un repertorio di strumenti comportamentali e conoscitivi che incide drasticamente sulla qualità della vita ma anche sul PIL, sui tassi occupazionali, sull’imprenditorialità diffusa, sulla crescita complessiva di una comunità e della sua civiltà e fisionomia, lungo l'idea di capability della filosofia economica di Amartya Sen. Non è molto nuovo, in realtà. E’ la vecchia e sempre attuale convinzione di Dario Fo secondo cui “L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000; per questo è lui il padrone”.

La città, in questa visione, deve essere modellata come una casa, come ambiente facilitante, senza relazioni banalizzanti tra domanda ed offerta di cultura. Da cui la necessità di una riflessione, spesso da sinistra rifuggita con qualche imbarazzo, sull’antica querelle della dicotomia tra una cultura “alta”, che si vorrebbe strutturalmente élitaria, borghese, oligarchica ed una cultura popolare che si vorrebbe, all’opposto, “bassa”, di massa, a largo consumo. Shakespeare contro I Legnanesi, Kieslowski contro Vanzina.

La mia persuasione, e lo confesso ormai senza alcun imbarazzo e con la convinzione che si tratti di una presa di posizione progressista e di sinistra, è che – senza esclusività - la cultura non è assimilabile all'intrattenimento, che il luogo della politica culturale pubblica debba essere il luogo in cui abitano Shakespeare e Kieslowski. Che la ratio del Welfare in campo culturale sia la promozione ed il sostegno della cultura “alta” e delle politiche organizzative e formative volte alla possibilità di rendere questa cultura sempre più tendenzialmente diffusa e popolare. Per le ragioni che ho detto all’inizio. Ma, ancor più incisivamente, perché – in una triste proporzione inversa - questa cultura portatrice di maggior valore è – in una prospettiva economica – a più alto rischio di disavanzo, maggiormente bisognosa di sostegno e caratterizzata da un maggior disequilibrio di mercato.

Ma credo necessario un chiarimento, sia per fugare la sensazione di un approccio snob sia per esprimere meglio l’idea di cultura “alta”. Provo con un esempio: la mia vita professionale è stata per lungo tempo quasi interamente dedicata allo spettacolo e alla cultura per l’infanzia, per i bambini, nei quali vedo con grande chiarezza – sempre più man mano che passano gli anni e i capelli si fanno bianchi – il più “alto”, serio e sincero spettatore dello spettacolo dal vivo. In questo senso – senza attribuire alle aggettivazioni il significato usuale – una programmazione “alta” è una programmazione che vede l’infanzia come centro fondamentale dell’attività, nella direzione del futuro, della semina in vista del raccolto di domani. L’idea di cultura “alta”, cioè, coincide con l’idea che la cultura e l'accesso alla cultura si configurino come un vero e proprio diritto civile, un bene pubblico. Che la cultura (ammesso che si possa avere un'idea condivisa di ciò che il termine significa) possa estendersi a tutti, essere fruibile da tutti, essere cultura popolare anche quando affronta i temi della filosofia o dell'arte contemporanea, mantenendo il suo carattere fondamentale: l'arricchimento - in senso molto concreto - della vita delle comunità e degli individui che ne fanno parte.

La scommessa da sinistra, dunque, è che questa cultura come potenzialità, questa cultura-orizzonte, questa cultura-futuro, questa cultura di cui a mio parere la nostra città ha disperato e vitale bisogno possa diventare ossigeno quotidiano. E che la scommessa sia, poi, quella giocata sul tavolo dell’efficienza organizzativa, delle politiche di accesso, della formazione, aggregazione e promozione del pubblico e della cittadinanza in tutte le sue componenti etniche, sociali, anagrafiche.

Adottando la favola della volpe e l’uva, politica pubblica per la cultura significa lavorare per alzare la statura della volpe, non abbassare sempre più il pergolato. 

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