domenica 17 aprile 2011

Sostenere l'insostenibile

Nelle condizioni in cui versa attualmente la finanza pubblica, un programma politico volto al sistematico sostegno della cultura rischia di rimanere al livello della pura astrazione teorica, demagogica o ideologica.

Credo fortemente, tuttavia, che la politica - anche quella amministrativa - debba tornare a tracciare orizzonti ideali e principi, evocare ancora sogni come idee guida, mappe possibili di mondi possibili.  Tutto, in caso contrario, rischia, nel quotidiano - e a prescindere dalla volontà di ciascuno -, di ripiegare nella gestione dell'esistente, nella presa d'atto, in una sostanziale rassegnazione.

Percorrere l'approssimazione al mondo dei sogni significa anche dunque, credo, forzare l'immaginazione politica costringendola - nel confronto con la concretezza - ad un livello comunque alto, ancorché sostenibile, di elaborazione e proposta.

La domanda, nella sua crudezza ed apparente semplicità, è: fatto salvo il quadro di bilancio realmente drammatico - in buona misura a causa dei tagli dei trasferimenti statali e regionali e ai vincoli imposti dal patto di stabilità -  in cui il Comune di Varese si troverà anche in prospettiva ad operare, com'è possibile percorrere realmente queste politiche di rilancio delle attività ed istituzioni culturali?

Se, per un verso, sul versante delle uscite rimane del tutto naturale e non astratto il principio dell'inversione delle priorità (che implica banalmente, in base a scelte indiscutibilmente anche politiche, la riallocazione sul capitolo "Cultura" di risorse originariamente riversate su altre sezioni del bilancio), è però possibile immaginare interventi a carattere anche fortemente innovativo sul versante del possibile reperimento di nuove entrate.

Tre idee per sostenere l'insostenibile: tre idee, peraltro, che - pur molto marcate sul piano politico - potrebbero configurarsi a mio modo di vedere come programmi di ricerca, studio ed elaborazione a carattere trasversale tra gli schieramenti (e che, come strumenti formali, potrebbero essere in realtà percorse anche per altri ambiti delle politiche di Welfare).

(a) Tassa di scopo

Si tratta di un'ipotesi la cui reale percorribilità - anche teorica - dipende dai vincoli definiti al riguardo dal decreto sul federalismo (che pare limitarne la possibilità ad interventi strutturali e ad investimenti in conto capitale) ma in generale, ed in prospettiva, dai futuri possibili percorsi delle linee di decentramento fiscale.  
L'idea di base consiste nell'indizione di uno strumento di consultazione dei cittadini - anche telematico e a basso costo - per chieder loro se sono disponibili all'introduzione di specifiche tasse di scopo pluriennali espressamente dedicate al sostegno delle attività culturali (con coefficienti variabili di natura progressiva - ossia scaglionati in base al reddito - anziché proporzionale, definite in forme precise, trasparenti, destinate a progetti, iniziative o istituzioni chiare ed individuabili).

La chiave di volta di questa ipotesi, al di là del suo contenuto economico, è da individuarsi nella sua premessa, rischiosa ma a mio modo di vedere sempre più necessaria (anche in chiave di legittimazione politica delle istanze del mondo della cultura): la consultazione preliminare dei cittadini.

In questo modo, infatti: (a) l'ente pubblico - come direbbero ad anatema i neo-liberisti di vario colore (quasi fosse uno scandalo) - mette le mani nelle tasche dei cittadini; (b) ma in forma esplicita, con chiara definizione dello scopo e soprattutto chiedendo il loro parere su senso, opportunità e sostenibilità dei sistemi e progetti culturali locali.

Vi è naturalmente un corollario fondamentale che rende razionale questa ipotesi, anche in caso di - certamente possibile - esito negativo delle consultazioni: la tassa di scopo e il gettito che ne deriverebbe dovrebbe ricoprire una funzione additiva e complementare rispetto alla spesa in campo culturale definita ordinariamente nei bilanci comunali e compatibile con le politiche e le risorse dell'amministrazione. Si tratterebbe, cioè, di un volano ed un moltiplicatore - qualitativo e quantitativo - per l'incremento delle attività, da un lato, e per il perseguimento di politiche più efficaci di contenimento dei prezzi al pubblico, cioè di sostegno della domanda. Un esito negativo non sospende quel che tutti riteniamo un diritto della collettività ma - semmai - ne limita la piena realizzazione: un dato che, del resto, stiamo tutti subendo da anni in qualsiasi caso.

(b) Organizzazione/istituzione ad azionariato diffuso

L'idea - elaborata sinteticamente nel programma di Sinistra Ecologia e Libertà - consiste nella costituzione di un'organizzazione (Una fondazione? Un'associazione? La forma non è fondamentale purché si tratti di una realtà costitutivamente senza finalità di lucro) a partecipazione mista pubblico-privata nella quale confluiscano - mantenendo la propria sostanziale autonomia  e specificità vocazionale e trovando rappresentanza e terreno di lavoro individuale e comune, sulla base di criteri da individuare collegialmente - le numerosissime realtà culturali cittadine attualmente disperse, non coordinate tra loro ed anzi spesso concorrenziali (e al contempo prive di risorse). Un'esperienza analoga di straordinario interesse, sul versante teatrale per l'infanzia, è da anni in corso per esempio a Torino.

Potrebbe trattarsi - in forma realmente partecipata e paritetica - di una forte, matura e significativa risposta, di iniziativa pubblica, alla litania ripetuta a più riprese in questi anni dal Sindaco Fontana (non senza qualche ragione, ma sostanzialmente come alibi) rispetto agli "orticelli" individuali coltivati dalle singole associazioni ed organizzazioni e non in grado di costruire prospettive di dialogo. Potrebbe, al contempo, essere per esempio l'occasione per una gestione multidisciplinare, sistematica, coordinata, collegiale del Teatro Santuccio, che - nella sua bellezza - pare paradossalmente oggi rappresentare per l'Amministrazione un problema più che una risorsa.

Ad azionariato diffuso, dicevo tuttavia: fatta salva la necessità di un contributo e riconoscimento pubblico, la chiave di volta dell'idea coincide con l'istituzione di un'organizzazione culturale come "sistema aperto", strutturalmente connesso con il ruolo ad esso riconosciuto, anche sul piano economico, dai singoli cittadini,  condiviso in itinere, soprattutto reso trasparente (per esempio attraverso la pubblicazione dei bilanci), partecipato e indipendente (il modello più interessante rimane, a mio modo di vedere, quello di Radio Popolare). Al di là dei dati "tecnici" legati all'economia aziendale (il termine "azionariato diffuso" non necessariamente deve essere collegato all'effettiva costituzione di una S.p.A.: è un concetto, a mio modo di vedere, di natura più "evocativa" che strettamente aziendalistica), l'idea ha qualcosa di estremamente affascinante dal punto di vista politico e del senso della democrazia e, insieme, ha nuovamente il sapore di una scommessa: da un lato sul versante dell'efficacia e capillarità (dal porta-a-porta a banchetti permanenti in città) delle politiche di fund raising che - dalla sempre più precaria relazione con l'universo delle imprese - si vanno spostando sul terreno della connessione stabile con gli individui, nella direzione esplicita di una cultura dei e per i cittadini; dall'altro, ovviamente, sul versante dell'effettiva verifica sul campo di questa, ipotetica, necessità ed organicità territoriale.

Da questo punto di vista - al di là delle procedure standard e più o meno di routine della comunicazione - credo che un ruolo potenzialmente molto interessante potrebbero avere i nuovi canali di relazione offerti dai social networks ed un intenso (e probabilmente non facile) lavoro di immaginazione organizzativa, in grado di creare - non solo sul piano "virtuale" - una vera e propria comunità di sostegno, anche affettivamente raccolta intorno all'organizzazione, con occasioni di incontro, dibattito, scambio, reciprocità che rafforzino - e rendano significativa per ciascuno, oltre l'ordinaria programmazione - la scelta di sostenere l'attività: penso alle innumerevoli relazioni virtuose e strutturali che si potrebbero consolidare, per esempio, con le famiglie che portano i bambini a teatro, con il meraviglioso pubblico di "Cortisonici", con gli amanti della poesia e della letteratura, con il pubblico del Teatro Apollonio (che mi ostino, imperturbabile, a chiamare così!)...

Si tratta - ne sono perfettamente consapevole - di un'opzione caratterizzata da una notevolissima complessità di connessione ed organicità al territorio, per uno sforzo straordinario di natura organizzativa e comunicazionale e per una sostanziale, e quasi connaturata, precarietà ed aleatorietà. Ma si tratta tuttavia, al contempo, della scelta che più radicalmente marca la tendenziale e possibile indipendenza delle organizzazioni - sia pure pubblicamente partecipate e riconosciute - da gruppi di potere, stakeholders e pressioni di natura politica per rivolgersi prioritariamente al destinatario naturale dell'attività: la comunità locale, i pubblici, i frequentatori di musei e mostre.

(c) Responsabilità sociale (obbligatoria) d'impresa.  

Infine un'istanza fortemente politica, che nasce soprattutto da un'analisi della mia lunga esperienza gallaratese ma che credo valida, a titolo di principio, in generale e quindi in particolare a Varese, come vertenza a carattere anche culturale e civile.

Gallarate si è in questi anni caratterizzata - credo molto visibilmente - per uno sviluppo delle attività culturali (dalla Fondazione Culturale al MA*GA) realmente abnorme e eccezionale. A prescindere dai meriti, dai demeriti e dalle contraddizioni di quanto avvenuto a Gallarate negli ultimi sei anni - che non è materia di discussione qui e ora - quel che è certo è che il costo sociale più visibile ed evidente di questo sviluppo - sino a tempi recenti - è stato sostanzialmente pagato dalla città (soprattutto nelle aree periferiche) attraverso una mortificazione della qualità del contesto urbano, segnato per tutto il primo decennio del 2000 da una progressiva e costante cementificazione, accompagnata da rilevantissime entrate derivanti da oneri di urbanizzazione.

Ora: nell'ambito di un convegno svoltosi a Bologna lo scorso anno, Roberto Calari - responsabile culturale di Legacoop dell'Emila Romagna - ha svolto un'impressionante relazione sulla "responsabilità sociale dell'impresa" a sostegno del teatro (qui, http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=125&ord=15, per chi volesse approfondire). Impressionante, dicevo: vi si delineava un universo cooperativo che si configura, in quelle "repubbliche ex-sovietiche", come partner stabile e straordinario "compagno di strada" del teatro.

Straordinario. Ma come molti partecipanti al convegno, tuttavia, temo di aver avuto la sensazione che si parlasse di un altro mondo. Questo perchè il riconoscimento della propria responsabilità sociale, in quell'accezione, è naturalmente frutto di intenzionalità, emergenza fattuale della cosiddetta "cultura dell'impresa", dei suoi orientamenti rispetto alla comunità territoriale (il "giving back to community"), ecc.

La mia persuasione è che al contrario - penso per esempio alla Lombardia dell'Expo 2015 - la responsabilità sociale delle imprese sia invece un fatto, il cui riconoscimento andrebbe sottratto all'aleatorietà della "coscienza" aziendale (un mito, in larga misura, che ricorda molto i pii desideri sulla "bontà" del capitalista espressi dai socialisti utopisti del primo Ottocento). Un fatto: legato - per esempio e appunto - al deterioramento di qualità del tessuto e del contesto urbano, alla riduzione o localizzazione del verde pubblico, alle implicazioni sull'inquinamento dell'aria. Una responsabilità oggettiva, che è continua nel tempo e non si può concepire come "conciliabile", una tantum, sostanzialmente solo via pagamento degli oneri di urbanizzazione.

Ora: se é del tutto evidente che a tutto questo vada, quanto prima, posto un freno e che sarebbe insieme irrazionale e criminale collegare causalmente il cemento alla cultura (il primo come condizione della seconda), credo sia invece giusto e quasi "naturale" prevedere che i processi di cementificazione già in essere o in via di deliberazione (penso per esempio al futuro PGT varesino) vengano, obbligatoriamente, connessi a tributi pluriennali che - ancora una volta - restituiscano qualità della vita alla comunità, destinando risorse ad un arco di investimenti pubblici che vanno dalla spesa sociale, al diritto allo studio, alle istituzioni culturali e teatrali. Una sorta di tassa obbligatoria per la responsabilità sociale d'impresa.

Pensate che bello immaginare un Caprotti o un Ligresti che - per una volta - vengono obbligati a restituire qualcosa, almeno qualcosa, alla comunità... Ma si tratta, forse, dell'ennesimo sogno ad occhi aperti.

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