Trovo abbastanza sconcertante che - da molti, quasi da tutti i candidati Sindaco - venga in questi giorni indicata come priorità cittadina la costruzione, tra le mura della Caserma Garibaldi, del nuovo Teatro Comunale. Pare uno spettro che si aggira per Varese e che ogni tanto fa qua e là la sua comparsa con gran rumor di ferraglie, per lo più - mi pare - solo propagandistiche e certamente senza un pensiero serio relativo alla gestione del dopo e al senso dell'operazione.
Da operatore teatrale, chiedo tuttavia: qualcuno è in grado di spiegare concretamente perchè si tratta di una priorità? E si tratta davvero di una priorità?
Quel che è interessante e sintomatico nell'intero dibattito sull'argomento - almeno da quando esiste il Teatro Apollonio (che mi ostino pervicacemente a chiamare così in omaggio ad uno dei padri del Piccolo Teatro) - è infatti la varietà sostanzialmente monocorde degli accenti, che raramente si concentrano sul cosa per dedicarsi puntualmente al dove nel suo dato quasi esclusivamente estetico-architettonico. Il Teatro Apollonio è "brutto", il Teatro Apollonio è "freddo", "ha una pessima acustica", "Varese si merita un bel teatro", ecc. ecc.
Ma qualcuno ha mai visto il "Salone CRT" di Via Dini a Milano? Si trova nell'estrema periferia della metropoli, verso Piazzale Abbiategrasso: uno spazio davvero disagevole, basso, decisamente bruttino, a tratti persino un po' inquietante. Ma lì, in quello strano complesso, dalla fine degli anni '70 sono passati tutti i maestri del teatro del Novecento, modificando radicalmente lo stesso teatro italiano, formandone le nuove generazioni: dal Kantor della Classe Morta a Grotowski, da Eugenio Barba al Living Theatre a Peter Schumann. Non sono le mura - o quantomeno non solo - a costruire il teatro: è la sua identità, il pensiero che vi è contenuto. Quel che vi accade, l'arte che vi prende forma.
E' forse per questo che il dibattito sul nuovo teatro comunale - entro gli estremi in cui si è sostanzialmente svolto sinora - non mi appassiona per niente: perché un teatro, bene o male, c'è già. Coi suoi limiti strutturali ed estetici, (che semmai potrebbero, in parte, essere affrontati in termini di ristrutturazione) ma c'è. Esiste, programma, costruisce cartelloni, attira spesso vasti pubblici. Si tratta di un luogo che ha avuto se non altro il grande merito, in questi anni e dopo l'abbandono del Cinema Impero da parte del Comune, di mantener viva la programmazione cittadina dello spettacolo dal vivo in forma sistematica. A questo si è successivamente aggiunto, in tempi ancor più prossimi, il nuovo Teatro Santuccio, che vive attualmente senza un gestore e - mi pare - senza un pensiero sistematico: uno spazio forse più affascinante ma al contempo, indiscutibilmente, più adatto a forme elementari o semplificate dello spettacolo dal vivo, a incontri, readings, conferenze. Senza dimenticare, poi e infine, la ricchezza anche qualitativa della programmazione del Cinema Teatro Nuovo: uno spazio che potrebbe serenamente aspirare a porsi come primario polo cittadino per il Teatro d'innovazione, un teatro - legato anche al rinnovamento generazionale dei pubblici - di cui si avverte profondamente la mancanza.
Quel che mi appassiona, quindi, non è la discussione dei luoghi in sé quanto piuttosto - come dicevo - una riflessione sulla loro possibile vocazione, nel quadro di un più complessivo esame di quello che potremmo definire - con qualche forzatura - "PGT dello spettacolo" sul territorio cittadino. E il nodo consiste semmai nel restituire l'Apollonio ad un'idea di teatro pubblico, o quantomeno di teatro anche sul piano qualitativo a funzione pubblica, almeno parzialmente sganciato (come avviene per esempio per la Stagione Musicale) dalle logiche commerciali che inevitabilmente caratterizzano una gestione privata. Quel che mi pare occorre ripensare è un teatro dei cittadini, un luogo che voglia, programmaticamente, sempre più aprirsi ad un pubblico non rituale, che si reca a teatro anche perché avverte il bisogno di esperienze culturali che creino inquietudini, lascino un segno, attivino emozioni, producano spazi per il pensiero. Una dimensione che dunque - nell'oltrepassare la consuetudine del teatro come intrattenimento fine a se stesso o ricerca esclusiva della risata e della spensieratezza - non possa al contrario che divenire luogo di dibattito, occhio aperto sulla contemporaneità e sulle sue contraddizioni, vera e propria piazza per la riflessione di una comunità su di sé attraverso quel che accade in scena (e dopo quel che è accaduto in scena), attraverso la relazione con un'arte che si confronta con il mondo.
Nessuno, significativamente, ha anche solo accennato a tutto questo. E tutto vien sostanzialmente dato per scontato, in un'operazione che pare più legata all'estetica e alla propaganda che al senso delle cose. Nel progetto "Garibaldi/Repubblica" manca esattamente questo - un'idea pubblica rispetto al poi e all'anima culturale del nuovo teatro - ma, soprattutto, una seria valutazione del costo sociale, ambientale ed urbanistico che la città dovrà pagare in termini di ulteriore cementificazione legata allo schema del project financing (la proposta in campo presuppone la copertura dei costi con un nuovo insediamento edilizio di 37mila mq di superficie!). Cosa accadrà della piazza? E dello spazio dove attualmente ha sede l'Apollonio? E siamo certi, davvero certi, che il progetto - in questi tempi di crisi straordinaria del mercato immobiliare a tutti livelli - stia davvero andando avanti? E a quali condizioni?
In conclusione: quel che occorre ripensare prioritariamente - credo - non sono tanto gli spazi ma la politica culturale pubblica, i modelli gestionali, l'investimento in qualità e in progetti di sistema, la capacità di proiettarsi nel futuro pensando alla cultura come ad un investimento per la città e per i suoi cittadini, e non come una spesa. Una nuova cattedrale, priva di risorse e collocata in un deserto di cemento senza questa riflessione a monte non serve proprio a nulla.
Da operatore teatrale, chiedo tuttavia: qualcuno è in grado di spiegare concretamente perchè si tratta di una priorità? E si tratta davvero di una priorità?
Quel che è interessante e sintomatico nell'intero dibattito sull'argomento - almeno da quando esiste il Teatro Apollonio (che mi ostino pervicacemente a chiamare così in omaggio ad uno dei padri del Piccolo Teatro) - è infatti la varietà sostanzialmente monocorde degli accenti, che raramente si concentrano sul cosa per dedicarsi puntualmente al dove nel suo dato quasi esclusivamente estetico-architettonico. Il Teatro Apollonio è "brutto", il Teatro Apollonio è "freddo", "ha una pessima acustica", "Varese si merita un bel teatro", ecc. ecc.
Ma qualcuno ha mai visto il "Salone CRT" di Via Dini a Milano? Si trova nell'estrema periferia della metropoli, verso Piazzale Abbiategrasso: uno spazio davvero disagevole, basso, decisamente bruttino, a tratti persino un po' inquietante. Ma lì, in quello strano complesso, dalla fine degli anni '70 sono passati tutti i maestri del teatro del Novecento, modificando radicalmente lo stesso teatro italiano, formandone le nuove generazioni: dal Kantor della Classe Morta a Grotowski, da Eugenio Barba al Living Theatre a Peter Schumann. Non sono le mura - o quantomeno non solo - a costruire il teatro: è la sua identità, il pensiero che vi è contenuto. Quel che vi accade, l'arte che vi prende forma.
E' forse per questo che il dibattito sul nuovo teatro comunale - entro gli estremi in cui si è sostanzialmente svolto sinora - non mi appassiona per niente: perché un teatro, bene o male, c'è già. Coi suoi limiti strutturali ed estetici, (che semmai potrebbero, in parte, essere affrontati in termini di ristrutturazione) ma c'è. Esiste, programma, costruisce cartelloni, attira spesso vasti pubblici. Si tratta di un luogo che ha avuto se non altro il grande merito, in questi anni e dopo l'abbandono del Cinema Impero da parte del Comune, di mantener viva la programmazione cittadina dello spettacolo dal vivo in forma sistematica. A questo si è successivamente aggiunto, in tempi ancor più prossimi, il nuovo Teatro Santuccio, che vive attualmente senza un gestore e - mi pare - senza un pensiero sistematico: uno spazio forse più affascinante ma al contempo, indiscutibilmente, più adatto a forme elementari o semplificate dello spettacolo dal vivo, a incontri, readings, conferenze. Senza dimenticare, poi e infine, la ricchezza anche qualitativa della programmazione del Cinema Teatro Nuovo: uno spazio che potrebbe serenamente aspirare a porsi come primario polo cittadino per il Teatro d'innovazione, un teatro - legato anche al rinnovamento generazionale dei pubblici - di cui si avverte profondamente la mancanza.
Quel che mi appassiona, quindi, non è la discussione dei luoghi in sé quanto piuttosto - come dicevo - una riflessione sulla loro possibile vocazione, nel quadro di un più complessivo esame di quello che potremmo definire - con qualche forzatura - "PGT dello spettacolo" sul territorio cittadino. E il nodo consiste semmai nel restituire l'Apollonio ad un'idea di teatro pubblico, o quantomeno di teatro anche sul piano qualitativo a funzione pubblica, almeno parzialmente sganciato (come avviene per esempio per la Stagione Musicale) dalle logiche commerciali che inevitabilmente caratterizzano una gestione privata. Quel che mi pare occorre ripensare è un teatro dei cittadini, un luogo che voglia, programmaticamente, sempre più aprirsi ad un pubblico non rituale, che si reca a teatro anche perché avverte il bisogno di esperienze culturali che creino inquietudini, lascino un segno, attivino emozioni, producano spazi per il pensiero. Una dimensione che dunque - nell'oltrepassare la consuetudine del teatro come intrattenimento fine a se stesso o ricerca esclusiva della risata e della spensieratezza - non possa al contrario che divenire luogo di dibattito, occhio aperto sulla contemporaneità e sulle sue contraddizioni, vera e propria piazza per la riflessione di una comunità su di sé attraverso quel che accade in scena (e dopo quel che è accaduto in scena), attraverso la relazione con un'arte che si confronta con il mondo.
Nessuno, significativamente, ha anche solo accennato a tutto questo. E tutto vien sostanzialmente dato per scontato, in un'operazione che pare più legata all'estetica e alla propaganda che al senso delle cose. Nel progetto "Garibaldi/Repubblica" manca esattamente questo - un'idea pubblica rispetto al poi e all'anima culturale del nuovo teatro - ma, soprattutto, una seria valutazione del costo sociale, ambientale ed urbanistico che la città dovrà pagare in termini di ulteriore cementificazione legata allo schema del project financing (la proposta in campo presuppone la copertura dei costi con un nuovo insediamento edilizio di 37mila mq di superficie!). Cosa accadrà della piazza? E dello spazio dove attualmente ha sede l'Apollonio? E siamo certi, davvero certi, che il progetto - in questi tempi di crisi straordinaria del mercato immobiliare a tutti livelli - stia davvero andando avanti? E a quali condizioni?
In conclusione: quel che occorre ripensare prioritariamente - credo - non sono tanto gli spazi ma la politica culturale pubblica, i modelli gestionali, l'investimento in qualità e in progetti di sistema, la capacità di proiettarsi nel futuro pensando alla cultura come ad un investimento per la città e per i suoi cittadini, e non come una spesa. Una nuova cattedrale, priva di risorse e collocata in un deserto di cemento senza questa riflessione a monte non serve proprio a nulla.
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