domenica 17 aprile 2011

Teatro Pubblico

Uno spettro si aggira, da anni, per Varese: lo spettro del Teatro Comunale. Anche nel corso degli ultimi tempi, il fantasma si è nuovamente manifestato - con maggior "consistenza ectoplasmatica", direbbe un ghostbuster - tra le mura della Caserma Garibaldi. Luogo, del resto, appunto sempre più spettrale.  

Quel che è interessante e sintomatico nell'intero dibattito sull'argomento - almeno da quando esiste il Teatro Apollonio - è la varietà sostanzialmente monocorde degli accenti: che raramente si concentrano sul cosa per dedicarsi puntualmente al dove nel suo dato quasi esclusivamente estetico-architettonico. Il Teatro Apollonio è "brutto", il Teatro Apollonio è "freddo", "ha una pessima acustica", "Varese si merita un bel teatro", ecc. ecc.

Qualcuno ha mai visto il "Salone CRT" di Via Dini a Milano? Si trova nell'estrema periferia della metropoli, verso Piazzale Abbiategrasso: uno spazio davvero disagevole, basso, decisamente bruttino, a tratti persino un po' inquietante. Ma lì, in quello strano complesso, dalla fine degli anni '70 sono passati tutti i maestri del teatro del Novecento, modificando radicalmente lo stesso teatro italiano, formandone le nuove generazioni: dal Kantor della Classe Morta a Grotowski, da Eugenio Barba al Living Theatre a Peter Schumann. Non sono le mura - o quantomeno non solo - a costruire il teatro: è la sua identità, il pensiero che vi è contenuto, in una parola la direzione artistica.

E' forse per questo che il dibattito sul nuovo teatro comunale - entro gli  estremi in cui si è sostanzialmente svolto sinora - non mi appassiona per niente: perché un teatro, bene o male, c'è già. Coi suoi limiti strutturali ed estetici, ma c'è. Esiste, programma, costruisce cartelloni, attira spesso vasti pubblici. Un luogo che ha avuto se non altro il grande merito, in questi anni e dopo l'abbandono del Cinema Impero da parte del Comune, di mantener viva la programmazione cittadina dello spettacolo dal vivo in forma sistematica. A questo si è successivamente aggiunto, in tempi ancor più prossimi, il nuovo Teatro Santuccio: uno spazio forse più affascinante ma al contempo, indiscutibilmente, più adatto a forme elementari o semplificate dello spettacolo dal vivo, a incontri, readings, conferenze.  

Quel che mi appassiona, quindi, non è la discussione dei luoghi in sé quanto piuttosto - come dicevo - una riflessione sulla loro possibile vocazione e funzione pubblica, nel quadro di un più complessivo esame di quello che potremmo definire - con qualche forzatura - "PGT dello spettacolo" sul territorio cittadino.

E, da questo angolo visuale, mi pare indiscutibile che la politica del Comune di Varese si sia venuta caratterizzando in questi anni per due percorsi paralleli ma al contempo oggettivamente un po' schizofrenici: da un lato il forte rilancio - significativamente sostenuto sul piano economico e culturale (peraltro e giustamente senza alcuna "ansia da pareggio" di bilancio) - di una Stagione Musicale di profilo anche internazionale elevatissimo, elaborata da una direzione artistica di straordinaria competenza ed apertura; dall'altro invece, e al contempo, dal progressivo ripiegamento - sino all'azzeramento dell'investimento economico (e ci pare, anche in questo caso, culturale) - sul versante del Teatro di Prosa ed in generale della programmazione e gestione del Teatro Apollonio: abbandonando anche quegli scampoli di "occhio pubblico" sulla prosa che, fino a poco tempo fa, venivano quantomeno testimoniati dall'enclave della "Stagione Teatrale Comunale" che faceva la sua comparsa (con qualche effetto di "straniamento") nel quadro del più complessivo cartellone privato dell'Apollonio.

Il quadro dello spettacolo dal vivo, quindi, pare caratterizzarsi per un riconoscimento della funzione pubblica (e per il corrispondente finanziamento) della musica classica e per una, parallela, esternalizzazione al privato dell'universo della prosa (ma, in generale, di tutte le altre espressioni della scena). Una scelta, peraltro, a mio avviso meritoriamente non fondata su ragioni di natura contabile, dal momento che la stagione musicale produce giocoforza significativi disavanzi. Una scelta, però e al contempo, oggettivamente un po' dissonante: la prosa non merita un occhio ed un sostegno pubblici? O invece - retropensiero mai esplicitato - l'esistenza di un gestore privato dell'Apollonio è stato colto come un'occasione per attribuire ad esso, sic et simpliciter, una funzione pubblica?  

Si tratta probabilmente dell'esito di una più o meno consapevole fusione di entrambe le ipotesi. Una visione che, tuttavia, non tiene conto del fatto che attribuire d'emblée ad un privato - che, come tale, deve legittimamente posizionarsi nel mercato ed esserne condizionato - una funzione che, come dimostra la stagione musicale, dalla dinamica del mercato deve almeno in parte emanciparsi rischia inevitabilmente di "commercializzare" il ruolo culturale della prosa, diluendola nella logica pressoché esclusiva della "chiamata", del "nome", del "botteghino" ponendo in subordine la valutazione artistica e qualitativa (e quindi l'effettiva funzione pubblica della programmazione).[1] Un dato testimoniato, del resto, dalla progressiva emorragia del tradizionale pubblico e degli abbonati alla Stagione di Prosa, che - avvezzi storicamente ad una qualità significativa della programmazione - si sono in questi anni lentamente allontanati da cartelloni sempre più ispirati allo svago e alla commedia brillante e sempre meno alla proposta di repertorio del teatro d'arte.

Ora: le prospettive aperte dai più recenti sviluppi, anche formali, relativi alla destinazione della Caserma Garibaldi quale possibile sito del nuovo teatro stabile (attraverso lo strumento del project financing) lasciano tuttavia per ora del tutto indeterminata la valutazione del costo sociale dell'operazione (l'impatto complessivo di quella che rischia di essere una vera e propria "colata di cemento" su Piazza Repubblica) e al contempo qualsiasi valutazione del modello gestionale che ne caratterizzerà organizzazione, funzione, vocazione, vita ed attività. Sarà una sostanziale riedizione - probabilmente con nuovi gestori - del modello-Apollonio (ossia a tutti gli effetti di un teatro privato)? Se quest'operazione andrà avanti, quali modelli relazionali/convenzionali regoleranno il ruolo pubblico del nuovo teatro e il suo rapporto anche economico con l'Amministrazione? In che senso potrà essere considerato, a tutti gli effetti, teatro di Varese?

Ora: è mia persuasione che - anche a fronte del drammatico quadro finanziario nazionale e locale - la politica culturale del centro-sinistra non possa rinunciare ad una prospettiva di seria e realistica, ma al contempo radicale, riconsiderazione delle priorità cittadine abdicando all'occasione quasi storica e certamente strategica di approdare, finalmente, alla realizzazione di un teatro pubblico a Varese. Un teatro dei cittadini, un luogo che voglia, programmaticamente, sempre più aprirsi ad un pubblico non rituale, che si reca a teatro anche perché avverte il bisogno di esperienze culturali che creino inquietudini, lascino un segno, attivino emozioni, producano spazi per il pensiero. Una dimensione che dunque - nell'oltrepassare la consuetudine del teatro come intrattenimento fine a se stesso o ricerca esclusiva della risata e della spensieratezza - non possa al contrario che divenire luogo di dibattito, occhio aperto sulla contemporaneità e sulle sue contraddizioni, vera e propria piazza per la riflessione di una comunità su di sé attraverso quel che accade in scena (e dopo quel che è accaduto in scena), attraverso la relazione con un'arte che si confronta con il mondo. E' l'antica dimensione della polis, che pare poter sopravvivere - in tempi di smemoratezza, indifferenza, crisi, chiusura - solo attraverso la ricostruzione di spazi protetti, in cui abbia luogo realmente un incontro tra persone e culture.

Un teatro, inoltre, aperto ad un'innovazione della scena che si riverberi anche e soprattutto in platea, nel pubblico, nella sua composizione culturale ed anagrafica: nella convinzione che – al fianco di un’offerta di alto valore culturale ampiamente e, sul piano artistico, incredibilmente sottostimata a livello nazionale – esista, al contempo, una corrispondente forte domanda, a carattere anche e soprattutto generazionale, spesso inespressa per mancanza di occasioni. Esiste cioè un teatro non paludato, fresco, contemporaneo, in grado di rivolgersi alle giovani generazioni attraverso arte, ricerca, linguaggi e temi del nostro tempo. E pare al contempo – stando alle più recenti rilevazioni – che via sia un rinnovato interesse dei giovani per il teatro, per i suoi contenuti e per il portato di relazione che porta con sé.

Un teatro pubblico che sia, infine, sostenibile: in grado di coniugare, per quanto possibile, l'alta qualità della proposta con un'intensità di programmazione realmente assorbibile dalla città e che sia al contempo - anche per forma giuridica - in grado di accedere alle risorse aggiuntive provenienti dalle Fondazioni bancarie (Fondazione Cariplo in primo luogo) ma anche dall'universo della cosiddetta "responsabilità sociale d'impresa" (penso anzitutto alle Coop).

Concludo riprendendo Paolo Grassi e il "Manifesto del Piccolo Teatro", tuttora - a 60 anni di distanza -  modello teorico e pratico insuperabile dell'idea di teatro pubblico:

"Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d'Italia, è promosso dall'iniziativa di taluni uomini d'arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell'autorità fattiva di chi è responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni [...] Noi vorremmo che autorità e giunta comunali, partiti e artisti si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno del cittadino, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei Vigili del Fuoco".   

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[1] Intendiamoci: dall'"estremismo giovanile" dei miei primi anni di lavoro in teatro molta acqua è passata sotto i ponti, ed ora non credo più nella simmetria inversa tra notorietà e qualità artistica. Non vale in entrambi i sensi: non è detto (quasi mai) che l'underground implichi una particolare qualità, così come non è detto che la coda al botteghino (e quindi la risposta commerciale) significhi che lo spettacolo è scadente. Ovviamente, e forse più radicalmente, non vale però neppure il contrario. Quel che differenzia i due approcci di programmazione (del teatro privato e del teatro a  funzione pubblica) è, o meglio dovrebbe essere, il processo decisionale e il differente primato che viene attribuito alla risposta commerciale rispetto alla scelta artistica. Poi, è evidente, in entrambi i casi almeno in parte i due criteri di valutazione si armonizzano e fluidificano nel tentativo di raggiungere un equilibrio tra, potremmo dire, coerenza e sostenibilità.

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