sabato 16 aprile 2011

La rivoluzionaria inutilità della cultura

La cultura non serve a niente. Anzi proprio l'ambiguità semantica del verbo "servire" (da cui il servo, la servitù...) ha in sé, sul piano etimologico, l'assenza di libertà.

La cultura non serve. Anzi, l'utilità della cultura mi pare sempre più risiedere proprio nella sua nobile, rivoluzionaria, radicale inutilità e gratuità.

Il godimento (ossia l'uso) del prodotto culturale è fine a se stesso. E' categorico non ipotetico. Non posso asserire, a proposito della cultura, una proposizione del tipo "uso quest'accendino per accendere il fornello". L'uso dell'accendino è finalistico e orientato ad uno scopo estrinseco all'uso stesso (l'accensione del fornello). Quanto alla cultura, invece, non posso fare altro che, genericamente, asserire: "Leggo questo libro (guardo questo film, assisto a questo spettacolo, osservo questo dipinto) per raccogliere nuovi strumenti che mi aiutino a (tentare di) interpretare e capire il mondo". In questo senso, a voler necessariamente segmentare in senso orientato l'atto culturale, la sua unica finalità mi pare risiedere nella costruzione ed accrescimento di repertori di interpretazione del - e di memoria sul - mondo.

Ma é proprio questo che - nel presente - é considerato inutile ed è proprio per questo che l'utilità della cultura è nella sua inutilità.

Sviluppiamo un po' il paradosso: l'opera d'arte è utile perché è inutile, perché in questa inutilità l'individuo viene sottratto - per un attimo, per sempre - ad una segmentazione mercantilistica dei rapporti sociali e del proprio rapporto con il mondo; perché è perdita di un tempo, che in quel momento diviene tempo liberato.

Il valore d'uso dell'opera d'arte - spogliato dei suoi elementi materiali - risiede anche, quindi, nella possibilità di svelare l'esistenza possibile di un mondo privo di valori d'uso.

E' il vecchio, insuperato, Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844:

"Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato."

Quindi cultura come riappropriazione del proprio essere alienato nell'universo dello scambio, del consumo e della produzione delle merci.

Che linguaggio antico e insieme modernissimo.

La società fondata sui consumi ha bisogno di negare ed avvilire la cultura (o di trasformare la cultura in un veicolo al servizio di se stessa) proprio per questo: perché nella scoperta dell'utilità dell'inutilità stanno tutti i germi della sua possibile scomparsa e - ancora con i Manoscritti - il riapparire dell'uomo ricco:

"Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l'economia politica, subentri l'uomo ricco e la ricchezza di bisogni umani. L'uomo ricco è ad un tempo l'uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l'uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno".

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